San Domenico Maggiore a Napoli

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Il saggio di Teresa Colletta “Le piazze seicentesche a Napoli e l’iniziativa degli Ordini religiosi” argomenta che a Napoli le piazze e i larghi, tanto nel centro antico quanto nei borghi, non nascono per direttive urbanistiche dei governanti ma per autonoma scelta dei privati di creare o lasciare uno spazio libero davanti alle loro dimore, siano queste civili o religiose: questo è per esempio il caso di piazza del Gesù. L’origine di piazza San Domenico Maggiore è invece in controtendenza rispetto a quest teoria e vediamo perché. Il più antico nucleo dell’isola conventuale attuale di San Domenico Maggiore era il monastero basiliano che risale al 968 e a cui era annessa la chiesa di S.Michele Arcangelo a Morfisa. Nel 1116 il convento è sede di una comunità benedettina che nel 1221 sarà sostituita per volere di Carlo I d’Angiò dai domenicani che erigono la prima chiesa dedicata a San Domenico consacrata nel 1255. Nel 1289 Carlo II d’Angiò scampato alla rivolta (con conseguente prigionia) dei Vespri Siciliani decide per grazia ricevuta la costruzione di una nuova chiesa dedicata a Santa Maria Maddalena, chiesa che poi sarà ubicata sull’area occupata dalla chiesa di San Domenico e da quella di San Michele Arcangelo a Morfisa unificando le due chiese. La nuova chiesa comunque a furor di popolo continua a chiamarsi chiesa di San Domenico. Cosa singolare l’ingresso principale della chiesa dà su un cortile che si apre alle spalle della piazza attuale e precisamente su una stradina che si chiamava via Fistula Fracta dal nome di una fontana pubblica che vi si trovava e che ora si chiama vico San Domenico Maggiore: nel corso dei secoli sull’area della attuale piazza erano nate infatti botteghe e costruzioni minori per cui la piazza non esisteva in quanto tale ed era parso naturale orientare la chiesa in quel modo. Questo stato di cose si protrae fino al regno di Alfonso I (o V) di Aragona detto il Magnanimo che tra il 1442 e il 1458 (anno della sua morte ) libera lo spazio della piazza da tutte le costruzioni di poco conto che la occupavano e la fa diventare piazza san Domenico Maggiore, la “piazza della chiesa” anche se la chiesa si presenta con l’abside e non con il sagrato sulla piazza stessa, e per sancire questa nuova funzione fa costruire una scalinata in piperno di accesso dalla piazza al presbiterio della chiesa dal lato dell’antica S. Michele Arcangelo a Morfisa. Quindi in questo caso è l’autorità politica e non quella religiosa a decidere la nascita ufficiale di una piazza e questo spiega anche il fatto singolare che sulla piazza non sorga la facciata ma l’abside della chiesa che ne porta il nome. La nuova piazza compare quindi sulla Veduta Lafréry del 1566 di cui si riporta appresso lo stralcio. Alla decisione reale di “fondare” la piazza non fu probabilmente estranea l’intenzione poi attuata di fare della chiesa di San Domenico il pantheon della dinastia e e della nobiltà aragonese. Infatti di lì a poco le spoglie di re Alfonso furono tumulate nella Sagrestia della chiesa e ad esse seguirono quelle di diversi suoi successori o comunque personaggi della casa reale. Ritornando al convento, esso dopo il rifacimento della chiesa di epoca angioina si accresce ancora e nel 1324 anno della sua massima espansione arriva ad avere tre chiostri e ad ospitare anche l’Università dove insegnò San Tommaso d’Aquino. Il primo palazzo nobiliare realizzato sulla piazza fu l’attuale palazzo Petrucci (vedi) appartenente ad Antonello Petrucci alto funzionario di corte di Alfonso e poi di Ferdinando I di Aragona. Poi nel corso dei secoli la piazza divenne quasi un feudo dei vari rami della famiglia nobile dei Sangro con la relizzazione nel Cinquecento dei palazzi dei Sangro di San Severo e dei Sangro di Vietri di Potenza (poi divenuto palazzo Saluzzo di Corigliano) e nel Seicento del palazzo dei Sangro di Casacalenda. Da notare che il palazzo dei Sangro di Vietri comprendeva tutto l’isolato, anche l’attuale palazzo dei Sangro di San Lucido coll’ingresso su piazzetta Nilo. Si riporta lo stralcio della veduta Baratta del 1629. Nella piazza fu realizzata una guglia dedicata a San Domenico iniziata nel 1658 da Francesco Antonio Picchiatti e completata nel 1737 da Domenico Antonio Vaccaro. E’ appresso riportata una veduta della piazza del Parrino datata 1700 in cui la guglia infatti appare non ancora completa. Dal saggio op.cit. di Teresa Coletta, da Italo Ferraro Napoli – Atlante della città storica ed. OIKOS, da Nicola Della Monica Palazzi e giardini di NapoliNewton Compton Editori), da D.A. Parrino Descrizione della città di Napoli http://www.palazzidinapoli.it/quartieri/san-giuseppe/piazza-san-domenico-maggiore/ I domenicani, presenti a Napoli in qualità di predicatori fin dal 1227, si insediarono definitivamente in città nel 1231, anno in cui accettarono di entrare in possesso del convento benedettino denominato Sant’Arcangelo a Morfisa, situato ai confini occidentali dei fabbricati greco-romani. Dovevano essere non meno di dodici. Erano guidati dal siciliano Tommaso Agni da Lentini, proveniente da Bologna, il primo priore del convento poi conosciuto col nome di San Domenico Maggiore. Fu lui a dare tra il 1243 e il 1244 l’abito dell’Ordine al giovane Tommaso d’Aquino, allora studente dell’Università di Napoli, fondata un ventennio prima dall’imperatore Federico II di Svevia. L’Aquinate, superate le avversioni della famiglia e divenuto col tempo prima discepolo di Alberto Magno e in seguito brillante professore universitario a Parigi, tornerà a risiedere nel suo convento di affiliazione tra il 1259-1261 e dal 1272 al 1274, la seconda volta per erigervi e guidarvi uno Studio filosofico-teologico. Nel Trecento alcuni frati della comunità saranno chiamati a testimoniare sulla santità di quest’ultimo, che verrà poi canonizzato ad Avignone nel 1323. Altri dovranno assumersi invece il non facile incarico di «inquisitori della pravità eretica». A provare i loro metodi sarà, al dire di Poggio Bracciolini, Lorenzo Valla nel secolo seguente. Nel frattempo si imporrà il problema della riforma, che a San Domenico Maggiore avrà alti e bassi e resterà d’attualità fino all’ultimo decennio del Cinquecento, con un’appendice che si colloca alcuni anni più il là. L’allusione riguarda soprattutto il fatto che nel 1583 e nel 1623 alcuni suoi frati avviarono due notevoli movimenti di riforma: quella della Sanità, iniziata in un convento recente ai piedi di Capodimonte, e quella fatta partire da San Marco dei Cavoti, al di là di Benevento. Nel frattempo la vitalità del centro domenicano potrà contare, oltre che sul patronato del Seggio di Nido e l’appoggio dei sovrani, su uomini quali il predicatore Gabriele Barletta († 1498) e il pugliese Alessandro Longo, reggente dello Studio conventuale nel 1475. Il primo venne subito onorato col detto: «Non sa predicare chi non sa barlettare»; il secondo perì nell’eccidio perpetrato dai mussulmani a Otranto tra il 12 e il 14 agosto 1480 e verrà canonizzato assieme ai suoi compagni di martirio il 12 maggio 2013. Il Quattrocento è anche il secolo in cui il convento conta il maggior numero di confessori di cui i re di Napoli si servirono. Il Cinquecento è caratterizzato anzitutto dall’inquietante episodio del 1528, quando, durante l’assedio delle truppe francesi di Lautrec, il convento fu per alcuni giorni preda della soldataglia locale spagnola e tedesca (non quindi degli occupanti francesi); in seguito, dall’aumento dei suoi frati, che giunsero a una media di 150 individui, cifra a cui nel Seicento saranno aggiunti talora altri trenta elementi. Fu con questa massa di confratelli che il filosofo nolano Giordano Bruno e il filosofo calabrese Tommaso Campanella dovranno fare i conti, il primo tra il 1565 e il 1576, vale a dire dalla sua recezione all’abito alla sua uscita dall’Ordine; il secondo per circa tre anni nell’ultimo decennio del Cinquecento e per non più di un mese nel 1626, quindi subito dopo la sua uscita dal carcere. Ma Campanella troverà in Serafino Rinaldi da Nocera un confratello che lo apprezzerà in pieno. Non per niente questi aveva osato ribellarsi all’imposizione della riforma nel 1595 e tuttavia finirà per essere poi due volte provinciale e morirà vescovo. Nel Cinquecento altri due frati «inquieti» di San Domenico Maggiore, sia pure di un’inquietudine diversa da quella dei due filosofi ora menzionati, furono Ambrogio Salvio da Bagnoli, l’amico fidato di San Pio V e il confidente di San Filippo Neri, e Tommaso Elisio, il frate che con le sue audaci idee sulla riforma della Chiesa finì per avere un libro all’Indice. Nel secolo seguente il pugliese Paolo Minerva invece volle sfidare il pensiero che farà capo a Galilei sostenendo la non dimostrabilità della nuova concezione dell’Universo. Il Seicento, grazie soprattutto all’intraprendenza del priore Tommaso Ruffo, dei duchi di Bagnara, poi procuratore dell’Ordine e infine arcivescovo di Bari, il convento viene in parte ristrutturato e in parte ampliato. La relazione del 1650, ordinata dalla Santa Sede per la progettata riduzione dei conventi italiani, non si limita a presentare la situazione economica della casa e quella numerica della comunità che l’occupa, ma fornisce pure un quadro esatto delle figure istituzionali che la strutturano: il provinciale, il priore, il reggente dello Studio. Non accenna invece agli ufficiali minori della casa, quali l’amministratore, il sacrista, il bibliotecario ecc. In compenso, in un successivo elenco, si enumerano tutti i compiti assegnati all’esercito dei conversi. Un incarico ormai scomparso è quello di inquisitore, ruolo passato da oltre un secolo nelle mani del clero diocesano, anche se è a San Domenico Maggiore che restano le carceri degli inquisiti, uomini e donne. Nel Settecento tocca al salernitano Tommaso M. Alfani, che aveva fatto i suoi studi accademici nel rinomato Studio domenicano di Napoli intitolato all’Aquinate ed era poi tornato nella sua città natale per insegnarvi scienze fisico-matematiche e fondarvi l’Accademia degli Inquieti, farsi strada in San Domenico Maggiore, il che avverrà sia con i suoi scritti, non in linea con quelli dei suoi confratelli, sia nei propri rapporti con la cultura più viva del suo tempo. Gli studi sui quali Alfani  concentrò i propri interessi furono quelli storici (una Istoria degli anni santi, Napoli 1725, e una raccolta dei concili provinciali meridionali in sei volumi rimasta inedita). I rappresentanti della cultura con la quale ebbe a che fare furono i più bei nomi del primo Illuminismo, quali a Napoli Giambattista Vico e Costantino Grimaldi, nell’Italia settentrionale Ludovico Antonio Muratori, Apostolo Zeno e Angelo Calogerà, Oltralpe l’olandese Jean Le Clerc e il bibliografo tedesco Giovanni Alberto Fabricius. Un orientamento del genere non era fatto per conciliargli la stima dei confratelli, presi da interessi culturali ora poco condivisi, che gli resero non facile la vita, come attestarono due contemporanei non napoletani, quali il domenicano piacentino Casto I. Ansaldi, amico di Celestino Galiani e di Antonio Genovesi, e il bresciano Gian Maria Mazzuchelli. Ciò non significa che Alfani non apprezzasse il pensiero di San Tommaso, ma solo che era sbagliato per lui limitarsi solo ad esso e fra l’altro a non fare una più oculata verifica dell’autenticità dei suoi scritti. Tale atteggiamento rispecchia un cambiamento dei tempi che non tutti percepivano e la necessità di nuovi percorsi. La richiesta di un atteggiamento critico nei confronti dello stesso testo tomistico fa pensare agli interessi sui quali si concentrerà dalla fine dell’Ottocento la Commissione Leonina. Lo scontro culturale tra Alfani e suoi confratelli sembra anticipare lo scossone del 1799 nel Sud e quei mutamenti politici che porteranno più tardi alla soppressione dei conventi. BIBLIOTECA Considerata fin dal XV secolo tra le biblioteche napoletane “più ragguardevoli”, la “Libraria” di San Domenico Maggiore si è arricchita nel tempo per donazioni private e acquisizioni, sia mediante i vari lasciti di frati del convento e di lettori dello Studio, sia mediante la vendita di numerosi doppioni atta a finanziare i nuovi acquisti. Ospitata in una grande sala al primo piano del convento accanto alla cella di san Tommaso (attualmente sala museale), la ‘Libraria’, la cui storia si era andata intrecciando con quella del cenobio napoletano, con i suoi cimeli e le sue memorie, assolveva la funzione di biblioteca di lavoro per i maestri e gli allievi dello Studio domenicano, cui era stato conferito il titolo di ‘Universitas’ dal capitolo generale di Salamanca del 1551. E tale funzione essa svolse sicuramente anche per lo Studio pubblico che per un secolo, dal 1515 al 1615, fu ospitato stabilmente proprio in alcuni locali del convento. Le donazioni di Giovanni Pontano Tra le donazioni più prestigiose che agli inizi del Cinquecento hanno arricchito le collezioni della ‘Libraria’ di S. Domenico Maggiore, è quella dei libri, per lo più manoscritti di cui alcuni autografi, di Giovanni Pontano. La preziosa raccolta, tra le più rappresentative della cultura umanistica napoletana, fu donata ai padri del convento dalla secondogenita del Pontano, Eugenia, con il consenso del marito Luigi di Casalnuovo. La donazione riguardava 49 volumi, di cui 34 in pergamena e 15 cartacei, con opere letterarie, filosofiche e astrologiche dell’antichità greco-latina, del Medioevo e del Rinascimento. Di tali volumi, dispersi in tempi diversi ma soprattutto durante il secolo scorso, T. Kaeppeli in un suo studio sulle antiche biblioteche domenicane ne segnala 13 manoscritti conservati in varie biblioteche italiane e straniere, di cui due presso la Biblioteca Nazionale di Napoli. Accanto a significative donazioni esterne, l’incremento maggiore per la ‘Libraria’ veniva, come si è già accennato, dai numerosi lasciti e donazioni – anche di pochi libri – da parte dei lettori e dei maestri dello Studio domenicano o anche da parte di semplici frati. Durante la seconda metà del Cinquecento frequentarono la Libraria di San Domenico due illustri confratelli, Giordano Bruno e Tommaso Campanella. La raccolta libraria, che si andò ad incrementare notevolmente nel corso del tempo comprendeva, accanto a quattro scritti dello stesso Pontano, manoscritti dell’Eneide e dell’Odissea, opere di Senofonte e di Aristotele, le commedie plautine, il De arte amandi di Ovidio, testi di Cicerone, le Epistole di Seneca, il De Trinitate e le Homiliae di Sant’Agostino; tra le opere a stampa figurava la Metafisica di Aristotele. Nel 1685 il consiglio conventuale aveva affidato i lavori di trasformazione del convento all’architetto Francesco Antonio Picchiatti, incaricandolo di rifare la biblioteca “tutta di nuovo a lamia”; l’imponente impianto dell’ambiente rispecchia totalmente le caratteristiche del linguaggio architettonico di Picchiatti che condusse i lavori di trasformazione del convento fino al 1694 . Fin dal capitolo generale parigino del 1233, si vietavano esplicitamente la cessione e la vendita dei libri: tale ordinatine, operante fino a tutto il XVI secolo e ribadita dalle Constitutiones romane del 1566, contemplava comunque la possibilità, prevista per la prima volta dal capitolo generale bolognese del 1340, di vendere i libri dei fratelli defunti, considerati un bene comune, solo ed esclusivamente per finanziare l’acquisto di altri testi. Preziosi cimeli erano conservati gelosamente nella ‘Libraria’ di S. Domenico Maggiore, finanche alcuni manoscritti autografi di san Tommaso, tra i quali il codice della sua trascrizione dei corsi tenuti da Alberto Magno sul De caelesti hierarchia dello pseudo Dionigi, ora alla Nazionale di Napoli. Come capita spesso di registrare nelle cronache delle biblioteche di ieri e di oggi, anche a San Domenico Maggiore mentre alcuni donavano libri alla biblioteca, altri li sottraevano. Per preservare la ‘Libraria’ da furti e dispersioni, si ottenne nel l571 da Pio V un breve, che fu inciso su una lapide collocata nella stessa biblioteca.  Fu poi anche deciso dall’allora priore del convento, Domenico Vita, di far censire tutti i volumi, incaricando tale fra’ Marcello da S. Marco di “far l’inventario de [ … ] li libri che sono in la libraria”. Tale inventario che sarebbe stato uno strumento di prim’ordine per la ricostruzione dei fondi dell’antica ‘Libraria’, non è stato finora rinvenuto. Né alla mancanza dell’originario inventario cinquecentesco della ‘Libraria’ pone rimedio la vasta raccolta di inventari delle biblioteche monastiche (oltre 7500 biblioteche di conventi e di singoli religiosi italiani) che si conserva presso la Biblioteca Vaticana. Com’è noto, dall’imponente censimento che è alla base di questi inventari, promosso nel 1598 dalla Congregazione dell’Indice e portato a termine nel 1603, riuscirono a rimanere esenti i domenicani e i gesuiti, probabilmente in ragione del ruolo di inquisitori che ricoprivano presso il Sant’Uffizio. Dei due inventari conservati presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, che solitamente vengono considerati cataloghi della ‘Libraria’ di san Domenico Maggiore, solo uno può essere utilizzato propriamente per ricostruire almeno in parte gli antichi fondi a stampa (non vi sono registrati i manoscritti) della biblioteca domenicana. L’altro catalogo, redatto in bella copia negli ultimi anni del Settecento da Domenico Noack si riferisce alle accessioni delle raccolte librarie di Deodato Marone ed Eustachio D’Afflitto da parte della biblioteca di San Domenico Maggiore. Il ms. della Nazionale di Napoli – un catalogo in forma di rubrica, che non segue tuttavia un rigoroso ordine alfabetico, redatto nel corso dell’Ottocento (vi sono registrati anche testi pubblicati nella seconda metà del secolo) e recante il timbro di San Domenico Maggiore, pur rappresentando, allo stato attuale delle ricerche, l’unico inventario sicuramente riferibile alla biblioteca domenicana, non può assolvere se non in parte la funzione di strumento valido per la ricostruzione dei fondi dell’antica ‘Libraria’ (incunaboli e cinquecentine ), sia perché redatto in epoca tarda, sia perché esso fu quasi sicuramente stilato in occasione del trasferimento del materiale librario in alcune biblioteche napoletane dopo l’unità d’Italia. È da precisare inoltre che la segnalazione di un’opera in questo catalogo di per sé non consente di risalire all’attuale sua collocazione, in quanto moltissime altre dispersioni seguirono anche dopo il trasferimento dei volumi alla Nazionale di Napoli e riguardarono per lo più testi che erano già presenti nelle collezioni dell’ex Biblioteca Reale. Non si hanno poi garanzie sul fatto che il catalogo registrasse l’intero patrimonio librario della biblioteca domenicana, o meglio ciò che allora ancora si conservava di esso. Numerose spoliazioni e dispersioni erano infatti avvenute già in precedenza, nel corso del Settecento (ma già tra XVI e XVII secolo si erano verificati fenomeni isolati di dispersione) e soprattutto nei primi decenni dell’Ottocento, a seguito della prima soppressione delle corporazioni religiose durante il decennio francese (al decreto di Giuseppe Bonaparte del 26 agosto 1806 era seguita la legge murattiana del 7 agosto 1809 che destinava tra l’altro l’edificio del convento domenicano ad opere pubbliche). Se una gran parte di libri e manoscritti, dopo tale soppressione, fu incamerata da varie biblioteche napoletane, un’altra parte scomparve invece senza lasciar traccia (di alcune spoliazioni furono accusati gli stessi frati). Del resto proprio in quegli anni, tra il 1807, e il 1809, veniva istituita la Biblioteca Universitaria di Napoli arredata a quanto sembra con scaffali provenienti proprio da S. Domenico Maggiore – alla quale veniva assegnata una cospicua quantità dei fondi requisiti nei vari conventi  napoletani, tra cui San Domenico Maggiore. Oggi gran parte dei libri dell’attuale Biblioteca Domenicana di Napoli, provengono da diversi conventi domenicani, accolti durante la fase d’organizzazione della Biblioteca prima della seconda Guerra Mondiale e dopo, presso il Convento del celebre Santuario di Madonna dell’Arco, adibito a centro di studi teologici da poco ricostituito. Portati con acquisizioni varie al convento di S. Maria della Sanità di Barra (Napoli) e da qui trasferiti completamente – nel 1969 – al convento di Sn Domenico Maggiore in Napoli.]]>

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