Mircea Eliade, lo spazio sacro: tempio, palazzo, “centro del mondo”,

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Mircea Eliade

Lo spazio sacro: tempio, palazzo, “centro del mondo”, 1949 (*) Filosofo e storico delle religioni, il rumeno Mircea Eliáde (1907-1986) era un uomo di grande cultura, viaggiatore e perfetto conoscitore di otto lingue, tra cui ebraico, persiano e sanscrito.

Convinto anticomunista, insegnò in università europee e americane e fu tra i maggiori esperti di sciamanesimo, yoga, rapporti tra magia e alchimia, temi su cui scrisse numerosi libri e saggi. Era fautore di un approccio fenomenologico alla storia delle religioni e perciò ostile a interpretazioni storicistiche o sociologiche.

Il Trattato di storia delle religioni, scritto in rumeno tra il settembre 1940 e il gennaio 1949, fu pubblicato a Parigi e subito gli procurò massima notorietà per l’analisi innovativa e completa: «Un fenomeno religioso – così Eliade nella Prefazione – risulterà tale soltanto a condizione di essere inteso nel proprio modo di essere, vale a dire studiato su scala religiosa.

Girare intorno al fenomeno religioso per mezzo della fisiologia, della psicologia, della sociologia, dell’economia, della linguistica, dell’arte ecc., significa tradirlo e lasciarsi sfuggire appunto il quid unico e irriducibile che contiene: il suo carattere sacro. Certamente non esistono fenomeni religiosi “puri”; non vi sono fenomeni unicamente ed esclusivamente religiosi.

In quanto cosa umana, la religione è insieme qualcosa di sociale, linguistico ed economico, non essendo concepibile l’uomo all’infuori del linguaggio e della vita collettiva. Ma sarebbe vano proporsi di spiegare la religione con una di queste funzioni fondamentali che definiscono, in ultima analisi, l’uomo».

Nel libro, Eliade ha sviluppato uno studio comparativo del sacro e delle sue manifestazioni, operando non una storia sistematica delle religioni antiche, bensì una morfologia degli oggetti del culto (il Cielo, il Sole, la Luna, l’Acqua e così via, cui viene dedicato un capitolo ciascuno), le cui forme compaiono e si ripetono nel tempo, con le feste, e nello spazio, con i «centri del mondo», reinterpretando e riattualizzando i miti primordiali.

Qualunque manifestazione del sacro – che si può presentare in oggetti, persone o luoghi – è detta, nella storia delle religioni, “cratofonia” (dal greco kratos, potenza o potere, e phonè, voce, suono) o “ierofania” (dal greco hiero, sacro, e phainein, mostrare).

Tra i temi trattati, si è scelto quello sullo spazio sacro (capitolo X) perché è sicuramente uno dei meno noti, ma non meno importante degli altri per comprendere, i motivi originari dell’edificazione di un altare, di una chiesa o di una città, e vedere che «da qualsiasi punto di vista la consideriamo, la dialettica degli spazi sacri tradisce sempre la “nostalgia del paradiso”».

Il capitolo X è completato da sessantasette note che rimandano a una bibliografia di oltre sessanta pagine (pp. 406-464), che tuttavia risulta incompleta nei riferimenti. Si è scelto, quindi, di omettere le note lasciando, tra parentesi quadre, il nome dell’autore citato.

Ierofanie e ripetizione

Ogni cratofonia o ierofania, indistintamente, trasfigura il suo teatro: da spazio profano, quale era prima, quel luogo è promosso a spazio sacro. Così, per il Canaco della Nuova Caledonia, «nella boscaglia innumerevoli rocce, pietre forate, hanno un senso speciale. Un certo avvallamento è favorevole alla ricerca della pioggia, un altro è abitato da totem; una data località è infestata dallo spirito vendicatore di un ammazzato. L’intero paesaggio è animato in questo modo, i suoi minimi particolari hanno un significato, la natura è carica di storia umana» [Leenhardt]. Più esattamente si potrebbe dire che, a opera delle cratofanie e ierofanie, la natura subisce una trasfigurazione e ne esce carica di miti. Partendo dalle osservazioni di A. R. Radcliffe-Brown e di A. P. Elkin, Lévy-Bruhl ha posto felicemente in luce la struttura ierofanica degli spazi sacri: «Per quegli indigeni la località sacra non si presenta mai isolatamente allo spirito; fa sempre parte di un complesso nel quale entrano con essa le specie animali e vegetali che vi abbondano in certe stagioni, gli eroi mitici che in quel luogo hanno vissuto, errato, creato, e che spesso si sono incorporati al suolo, le cerimonie che vi sono state celebrate periodicamente, e infine le emozioni suscitate da questi complessi» [Lévy-Bruhl]. L’elemento capitale di questo complesso secondo Radcliffe-Brown, è “il centro locale totemico” e nella maggior parte dei casi si constata un legame diretto, una “partecipazione”, per usare la parola di Lévy-Bruhl, fra i centri totemici e certe figure mitiche vissute all’origine dei tempi, che in quel periodo crearono centri totemici. Appunto in quegli spazi ierofanici si operarono le rivelazioni primordiali; ivi l’uomo fu iniziato al modo di alimentarsi, di garantire la continuità delle sue riserve alimentari. Quindi tutti i rituali alimentari celebrati entro i confini della zona sacra, del centro totemico, sono soltanto l’imitazione e la riproduzione dei gesti compiuti, “in illo tempore”, dagli esseri mitici. «In questo modo gli eroi dei tempi passati (del periodo mitico, “bugari”) facevano uscire dalle loro tane i bandicoot, gli opossum e le api» [Elkin]. In realtà la nozione di spazio sacro implica l’idea della ripetizione della ierofania primordiale che ha consacrato quello spazio, trasfigurandolo, singolarizzandolo, in breve isolandolo dallo spazio profano circostante. Il capitolo successivo mostrerà come un’analoga idea di ripetizione sostiene la nozione di tempo sacro, e fonda tanto gli innumerevoli sistemi rituali quanto, in generale, le speranze che l’uomo religioso nutre per la propria salvazione personale. Uno spazio sacro trae la propria validità dalla permanenza della ierofania che una volta l’ha consacrato. Ecco perché una certa tribù della Bolivia, ogni volta che sente il bisogno di rinnovare la sua energia e la sua vitalità, torna al luogo che ritiene culla dei suoi antenati [Elkin]. La ierofania, dunque, non ha avuto soltanto l’effetto di santificare una data frazione dello spazio profano omogeneo, ma assicura anche per l’avvenire il perdurare di questa sacralità. Là, in quella zona, la ierofania si ripete. Il luogo si trasforma così in una fonte inesauribile di forze e di sacralità, che concede all’uomo, all’unica condizione di penetrarvi, la partecipazione a quella forza e la comunione con quella sacralità. Questa intuizione elementare del luogo, diventando per mezzo della ierofania un “centro” permanente di sacralità, comanda e spiega tutto un insieme di sistemi, spesso complicati e intricati. Ma gli spazi sacri, per vari e diversamente elaborati che siano, hanno tutti un tratto comune: c’è sempre una zona ben definita che rende possibile (sotto forme del resto svariatissime) la comunione con la sacralità. È la continuità delle ierofanie che spiega la perennità degli spazi consacrati. Seguitando a curare i loro luoghi segreti tradizionali, gli Australiani non pensano alla pressione di interessi economici, dato che, come nota Elkin, una volta entrati al servizio dei bianchi, gli indigeni ne dipendono per l’alimentazione e per tutta la loro vita economica [Elkin]. Essi invece si recano i quei luoghi per ricercare la continuità della loro solidarietà mistica col territorio e con gli antenati, fondatori della civiltà del clan. La necessità sentita dagli Australiani di salvare il loro contatto con gli spazi ierofanici è essenzialmente religiosa: il bisogno di rimanere in diretta comunicazione con un “centro” produttore di sacralità. Perciò i centri molto difficilmente si lasciano spogliare del loro prestigio e passano, come un retaggio, da una popolazione all’altra, da una religione alla religione successiva. Le rocce, le sorgenti, le grotte, i boschi venerati nel corso della protostoria continuano, sotto forme variabili, a essere considerati sacri dalle odierne popolazioni cristiane. Un osservatore superficiale rischia di prendere per “superstizione” questo aspetto della religiosità popolare e di vedervi la prova che ogni vita religiosa collettiva è costituita, in buona parte, da eredità della preistoria. In realtà, la persistenza dei luoghi sacri dimostra l’autonomia delle ierofanie; il sacro si manifesta secondo le leggi della dialettica che gli è propria, e tale manifestazione si impone all’uomo DALL’ESTERNO. Supponendo che la “scelta” dei luoghi sacri sia lasciata agli uomini, si rende inesplicabile la continuità degli spazi sacri.

Consacrazione dello spazio

In realtà il luogo non è mai “scelto” dall’uomo, è soltanto “scoperto” [Van der Leeuw]; in altre parole, lo spazio sacro SI RIVELA a lui in un modo o nell’altro. La “rivelazione” non avviene necessariamente per il tramite di forme ierofaniche dirette (QUELLO spazio, QUELLA sorgente, QUELL’albero, eccetera), è ottenuta talvolta per mezzo di una tecnica tradizionale, nata da un sistema cosmologico e basata su di esso. L’“orientatio” è uno dei procedimenti usati per “scoprire” i luoghi. Evidentemente, come ora vedremo, non sono i santuari soltanto a esigere la consacrazione di uno spazio, anche la costruzione di una casa implica una trasfigurazione analoga dello spazio profano. Ma, in ogni caso, il luogo è regolarmente indicato da qualche cosa di DIVERSO, sia che si tratti di una ierofania folgorante, o dei principi cosmologici che fondano l’orientazione e la geomanzia o anche, nella sua forma più semplice, di un “segno” carico di qualche ierofania, quasi sempre un animale. Sartori ha riunito un’abbondante documentazione [Sartori] sulla convalida, per mezzo di segni animali, dell’area destinata a un insediamento umano. La presenza o l’assenza di formiche, di topi, eccetera è considerata segno ierofanico decisivo. Talvolta si lascia libero un animale domestico, per esempio un toro; dopo qualche giorno si ricerca, e viene sacrificato nel luogo stesso ove fu trovato; in quel punto dove sorgerà la città. «Tutti i santuari sono consacrati da una teofania», scriveva Robertson Smith [W.R. Smith]. Ma la sua osservazione non va presa in senso limitativo, e si deve estendere alle dimore degli eremiti o dei santi e, in generale, a ogni abitazione umana. «Secondo la leggenda, il marabutto che fondò el-Hemel alla fine del sedicesimo secolo, si fermò per passare la notte accanto alla sorgente, e piantò un bastone per terra. L’indomani, volendolo riprendere per continuare il cammino, trovò che il bastone aveva messo radice ed erano spuntate delle gemme. Vide, in questo, l’indizio della volontà di Dio, e stabilì la sua dimora in quel luogo» [R. Basset]. Alla loro volta i luoghi ove i santi sono vissuti, hanno pregato o furono sepolti, sono santificati e quindi separati dallo spazio profano circostante con un recinto o uno sbarramento di sassi [cfr. Westermarck]. Abbiamo già incontrato [paragrafo 75] gli stessi mucchi di sassi nel punto ove qualcuno è perito di morte violenta (fulmine, morso di serpente, eccetera); in questo caso la “morte violenta” ha valore di cratofania o di ierofania. Il recinto, il muro o il cerchio di sassi che racchiudono lo spazio sacro sono le più antiche strutture architettoniche note dei santuari. Compaiono già nelle civiltà proto-indiane (ad esempio a Mohenjo-Dato, confronta paragrafo 97) ed egee [cfr. A.W. Persson]. La recinzione non implica e non significa soltanto la presenza continuata di una cratofania o di una ierofania entro il recinto, ha anche lo scopo di tutelare il profano dal pericolo cui si esporrebbe penetrandovi senza avvedersene. Il sacro è sempre pericoloso per chi entra con esso in contatto senza preparazione, senza aver compiuto i “movimenti d’approccio” richiesti da qualsiasi atto religioso. «Non ti avvicinare sin qui – dice il Signore a Mosè – scalzati i piedi, perché il luogo dove ti trovi è terra santa!» [“Esodo” 3,5]. Indi gli innumerevoli riti e prescrizioni (piedi nudi, eccetera) per l’ingresso nel tempio, attestati frequentemente sia per i Semiti che per gli altri popoli mediterranei [Picard]. L’importanza rituale della soglia del tempio o della casa [cfr. Frazer], quali che siano le valorizzazioni e le interpretazioni diverse ricevute nel corso dei secoli, si spiega nello stesso modo, con la funzione separatrice dei limiti che abbiamo definito. Lo stesso avviene per le mura delle città: prima di essere opere militari, sono una difesa magica, perché in mezzo a uno spazio “caotico”, popolato di demoni e di larve (si veda più avanti) delimitano un cuneo, uno spazio organizzato, “cosmizzato”, cioè fornito di un “centro”. Così si spiega che in momenti critici (assedio, epidemia) tutta la popolazione si riunisce per circondare con una processione le mura della città-stato, rinforzando la loro qualità di limite e di baluardo magico-religioso. Questo accerchiamento processionale della città, con tutto il suo apparato di reliquie, di ceri, eccetera, assume talvolta una forma magico-simbolica: si offre al santo patrono della città un cero di lunghezza eguale al perimetro delle mura. Tutte queste pratiche difensive erano molto diffuse nel medioevo [cfr. Saintyves]. Ma si ritrovano anche in altre epoche e in altri ambienti. Nell’India del nord, ad esempio, in periodi di epidemia di segna intorno al villaggio un circolo destinato a vietare ai demoni della malattia la penetrazione del recinto [Crooke]. Il “cerchio magico”, tanto apprezzato in molti rituali magico-religiosi, ha anzitutto lo scopo di separare due spazi eterogenei.

Costruzione dello spazio sacro

Senza dubbio gli spazi sacri per eccellenza – altari, santuari – sono “costruiti” secondo le prescrizioni dei canoni tradizionali. Ma tale “costruzione” si fonda, in ultima analisi, sopra una rivelazione primordiale, che “in illo tempore” svelò l’archetipo dello spazio sacro, archetipo copiato e ripetuto poi all’infinito per l’erezione di ciascun nuovo altare, tempio o santuario. Troviamo dappertutto esempi di questa “costruzione” di uno spazio sacro, partendo da un modello archetipale. Limitiamoci a qualche caso tolto dal mondo orientale e consideriamo, ad esempio, il “maga” iranico. Staccandosi dalle antiche interpretazioni della parola (che Geldner traduceva “Bund”, “Geheimbund”), Nyberg la collega al “maya” del “Videvdat” (9,1-33), designante l’atto di purificazione compiuto in uno spazio consacrato di nove fosse, e vi vede il luogo sacro ove l’impurità è abolita e dove l’unione fra Cielo e Terra diventa possibile [“Yashna” 53]. In questa zona ben delimitata si attua l’esperienza del gruppo che Nyberg chiama «la comunità Gayha» [Nyberg]. L’erezione dell’altare per il sacrificio vedico è ancor più istruttiva da questo punto di vista. La consacrazione dello spazio si svolge secondo un duplice simbolismo. Da una parte, la costruzione dell’altare è concepita come una creazione del mondo [“Satapatha Brahmana”]: l’acqua in cui fu stemperata l’argilla è assimilata all’acqua primordiale, l’argilla posta nelle fondamenta dell’altare è assimilata alla Terra, le pareti laterali all’atmosfera, e così via [“Satapatha Brahmana”]. D’altra parte, la costruzione dell’altare equivale a un’integrazione simbolica del tempo, «alla sua materializzazione nel corpo stesso dell’altare»: «L’altare del fuoco è l’inno… Le notti sono le sue pietre di chiusura e queste sono 360, perché vi sono 360 notti nell’anno; i giorni sono i mattoni “yajusmati”, perché questi sono 360; ora, vi sono 360 giorni nell’anno» [“Satapatha Brahmana”]. L’altare diventa così un microcosmo, che esiste in uno spazio e in un tempo mistici, qualitativamente distinti dallo spazio e dal tempo profani. Chi dice costruzione di un altare dice insieme ripetizione della cosmogonia. Il senso profondo di tale ripetizione risulterà fra poco (paragrafi 151 e seguenti). La stessa portata cosmogonica si ha nella costruzione del “mandala”, come la praticano le scuole tantriche. La parola significa “circolo”; nelle traduzioni tibetane è resa ora con “centro” ora con “ciò che circonda”. Consiste in una serie di circoli, concentrici o non, iscritti in un quadrato. Nell’interno del diagramma, disegnato per terra con un filo colorato o con farina di riso colorata, si costruiscono le immagini di varie divinità tantriche. Il mandala è insieme un’ “imago mundi” e un pantheon simbolico. Per il neofita, l’iniziazione consiste essenzialmente nel penetrare nelle diverse zone o livelli del mandala.

Il rito si può considerare, a pari titolo, l’equivalente del “Pradakshina”, il noto cerimoniale di circumambulazione di un tempio o di un monumento sacro (“stupa”), o dell’iniziazione mediante l’ingresso rituale in un labirinto. L’assimilazione del tempio al “mandala” è evidente nel caso di Barabudur [Mus] e dei templi indo-tibetani costruiti sotto l’influenza delle dottrine tantriche [cfr. Tucci].

Tutte queste costruzioni sacre rappresentano simbolicamente l’universo intero: i loro piani, o le loro terrazze, sono identificati con i “cicli” o con i livelli cosmici. In un certo senso ciascuno di loro riproduce il Monte cosmico, cioè si considera costruito nel “centro del mondo”. Questo simbolismo del centro, come mostreremo fra poco, è implicito tanto nella costruzione della città, come in quella delle case: infatti è “centro” ogni spazio consacrato, cioè ogni spazio nel quale possono avvenire ierofanie e teofanie e nel quale vi sia una possibilità di rottura di livello fra il cielo e la terra. Qualsiasi nuova installazione umana è, in un certo senso, una ricostruzione del mondo (paragrafo 151) perché possa DURARE ed essere REALE, la nuova casa o la nuova città debbono essere proiettate, mediante il rituale di costruzione, nel “Centro dell’Universo”. Secondo molte costruzioni, la creazione della città deve svilupparsi anch’essa intorno a un centro. Romolo, dopo aver scavato una buca profonda (fossa), la riempì di frutti, la coprì di terra e vi eresse sopra un altare (ara); poi tracciò con l’aratro un recinto [Ovidio]. La fossa era un “mundus” e, come nota Plutarco [Plutarco], «fu dato a questa buca, come all’Universo stesso, il nome di mondo». Questo “mundus” era il luogo d’intersezione dei tre livelli cosmici [Macrobio]. È probabile che il primitivo modello di Roma sia stato un quadrato inscritto in un circolo: la diffusione estesissima della tradizione gemella del circolo e del quadrato invita a supporlo [cfr. Allcroft]. D’altra parte, il significato ctonio dei monumenti circolari greci (“bothros”, “tholos”, “thymele”, eccetera), così nettamente posto in luce dalle recenti ricerche di Robert [F. Robert] non deve ingannarci. Rimane da vedere se questo significato esclusivo non sia, in realtà, effetto di una “specializzazione” egea, perché i monumenti sacri di ogni specie, perfino i monumenti funebri (confronta lo “stupa” indiano), hanno per solito un senso cosmologico più vasto, quello di intersezione di tutti i livelli cosmici, che fa di ogni costruzione un “centro”. L’Africa ci offre, a questo proposito, un esempio istruttivo, ove il fattore ctonio non vela l’ispirazione cosmogonica. Si tratta del cerimoniale usato dalla popolazione Mande nella fondazione delle città, descritto da Frobenius [Frobenius], e giustamente paragonato col cerimoniale della fondazione di Roma di Jeanmaire [Jeanmarie] e Kerényi [C.G. Jung e K. Kerényi]. Questo rituale africano, pur comportando elementi ctonio-agrari (sacrificio del toro ed erezione di un altare fallomorfo sopra il suo organo genitale), è basato su di una concezione cosmogonica. La fondazione della nuova città ripete la creazione del mondo; infatti, convalidato ritualmente il sito si costruisce un recinto di forma circolare o quadrata, nel quale si aprono quattro porte, corrispondenti ai quattro punti cardinali. Ora le città, come aveva già dimostrato Usener [Usener], sono divise in quattro punti, sul modello del Cosmo; in altre parole, sono una copia dell’Universo. Il simbolismo del “centro” e le sue implicazioni cosmologiche sono stati già studiati in varie opere [di Eliade]; daremo qui soltanto qualche esempio.

Abbracciando i fatti con uno sguardo generale, possiamo dire che tale simbolismo si manifesta in tre complessi solidali e complementari:

1) nel centro del mondo sta la “Montagna sacra”, ivi si incontrano il Cielo e la Terra;

2) ogni tempio o palazzo, e per estensione ogni città sacra e residenza regia, sono assimilati a una “Montagna sacra”, e quindi promossi a “centro”;

3) il tempio o la città sacra, essendo luoghi attraversati dall’“Axis mundi”, sono considerati a lor volta punto di congiungimento fra Cielo, Terra e Inferno. Per questo, nelle credenze indiane, il Monte Meru si erge al centro del mondo, e la Stella polare splende al disopra di lui. Questo concetto è condiviso dai popoli uralo-altaici, iranici, germanici [cfr. Eliade].

Si trova perfino presso i “primitivi” come i Pigmei di Malacca [Schebesta], e sembra presente anche nel simbolismo dei monumenti preistorici [Gaerte]. In Mesopotamia un monte centrale (la “montagna dei paesi”) unisce Cielo e Terra [Jeremias]. Tabor, nome del monte palestinese, potrebbe essere “tabbur”, e significare “ombelico”, “omphalos” [Burrows]; quanto al monte Gerizim, era chiamato “ombelico della Terra” (“tabbur eres”) [“Giudici”].

La Palestina, grazie alla sua condizione di luogo più alto (è infatti prossima alla cima della montagna cosmica), non fu inondata dal diluvio [Wensinck]. Per i cristiani, il Golgota era al centro del mondo, ed era insieme cima della montagna cosmica e sito ove Adamo era stato creato e sepolto. Sicché, il sangue del redentore aveva bagnato il cranio di Adamo, sepolto appunto ai piedi della Croce, e l’aveva riscattato [cfr. Eliade]. Riguardo all’assimilazione dei templi e delle città con la montagna cosmica, la terminologia mesopotamica è chiara: i templi di chiamano il “monte casa”, la “casa del monte di tutti i paesi”, il “monte delle tempeste”, il “vincolo fra Cielo e Terra”, eccetera [cfr. Dombart]. Un cilindro del tempo del re Gudea dice che “la stanza (del dio) che egli (il re) aveva costruito era simile al monte cosmico” [Albright]. Ogni città orientale si trovava al centro del mondo. Babilonia era una Bab-ilani, una “porta degli dèi”, perché in quel luogo gli dèi scendevano sulla terra. La “ziqqurat” mesopotamica era un realtà una montagna cosmica (confronta paragrafo 31). Il tempio di Barabudur è anch’esso un’immagine del Cosmo ed è costruito in forma di montagna [Mus]. Ascendendolo, il pellegrino si avvicina al Centro del Mondo e, sulla terrazza superiore, assurge a una rottura di livello, trascende lo spazio profano, eterogeneo, e penetra in una “terra pura”. Le città sante e i luoghi santi sono assimilati alle cime delle montagne cosmiche. Per questo Gerusalemme e Sion non furono sommerse dal diluvio. D’altra parte, secondo la tradizione islamica, il luogo più alto della Terra è la Kasba, perché la Stella Polare attesta che essa si trova di fronte al centro del cielo [cfr. Wensinck]. Nella capitale del sovrano cinese perfetto, lo gnomone non deve dare ombra nel mezzogiorno del solstizio d’estate, perché questa capitale sta al centro dell’Universo, accanto all’Albero miracoloso “Legno Eretto” (“Kien-mu”), dove si intersecano le tre zone cosmiche: Cielo, Terra, Inferno [cfr. Granet]. In realtà, in quanto situati al centro del Cosmo, il tempio o la città sacra sono sempre il punto di incontro delle tre regioni cosmiche. “Dur-an-ki”, “luogo fra Cielo e Terra”, era il nome dei santuari di Nippur, di Larsa, e indubbiamente anche di Sippar [Burrows]. Babilonia aveva una quantità di nomi, fra cui “Casa della base del Cielo e della Terra”, “Legame fra Cielo e Terra” [Jeremias]. Ma il collegamento fra la Terra e le regioni inferiori avveniva sempre a Babilonia, perché la città era stata costruita su “Bab-apsi”, la “Porta di Apsu” [Burrows]; “apsu” designava le acque del caos, prima della Creazione. Ritroviamo questa stessa tradizione presso gli Ebrei. La roccia di Gerusalemme penetrava profondamente nelle acque sotterranee (“tehom”). Dice la Mishna che il Tempio si trova esattamente al disopra del “tehom” (equivalente ebraico di “apsu”). E appunto come a Babilonia, c’era la «porta di “apsu”», la roccia del Tempio di Gerusalemme conteneva la «bocca del “tehom”» [Burrows]. Si trovano concetti analoghi nel mondo romano. «Quando il “mundus” è aperto, si può dire che sia aperta la porta delle tristi divinità infernali» [Varrone]. Il tempio italico era anch’esso zona di intersezione dei mondi: superiore (divino), terrestre e sotterraneo. Abbiamo già fatto notare (paragrafo 81) che l’“omphalos” era considerato “ombelico della terra”, cioè “centro dell’Universo”. Le valenze ctonio-funerarie dell’“omphalos” non gli vietano “a priori” ogni portata cosmologica. Il simbolismo del “centro” comprende nozioni multiple: quella di punto d’intersezione dei livelli cosmici (canale di collegamento tra Inferno e Terra; confronta il “bethel” di Giacobbe, paragrafi 79 e seguenti), quello di spazio ierofanico e insieme REALE; quello di spazio “creazionale” per eccellenza, il solo ove la Creazione POSSA aver inizio. Perciò, in varie tradizioni, vediamo la creazione partire da un “centro”, perché ivi sta la fonte di ogni realtà, e quindi dell’ENERGIA della VITA. Avviene perfino che le tradizioni cosmologiche esprimano il simbolismo del centro in termini che sembrano tolti dall’embriologia: «Il Santissimo ha creato il mondo come un embrione. Appunto come l’embrione cresce dall’ombelico, così Dio cominciò a creare il mondo dall’ombelico. E di là si è esteso in tutte le direzioni» [cfr. Wensinck]. “Yoma” afferma: «Il mondo fu creato cominciando da Sion» [cfr Wensinck]. Anche nel “Rgveda” (10, 149, per esempio) l’universo è concepito come estendentesi partendo da un punto centrale [cfr. Wensinck].   La tradizione buddhistica ci presenta una concezione identica: la creazione parte da una cima, cioè da un punto insieme centrale e trascendente. Appena nato, il Bodhisattva pianta i piedi sul suolo e, volto verso il nord, fa sette lunghi passi, raggiunge il polo e grida: «Sono io che mi trovo sulla punta del mondo (“aggo’ ham asmi lokassa”); sono io il primogenito del mondo” (“jettho ‘ham asmi lokassa”)» [“Majjhimanikaya”]. In realtà, raggiungendo la cima cosmica, il Buddha diventa CONTEMPORANEO DEL PRINCIPIO DEL MONDO. Magicamente (per il fatto di inserirsi nel “centro”, dal quale è uscito l’universo intero) il Buddha ha abolito il tempo e la Creazione, e si trova in quell’istante fuori del tempo che precede la cosmogonia (Mus; Eliade]. Si comprenderà questa fra breve; l’abolizione del tempo profano e l’inserzione in quell’“illo tempore” mitico della cosmogonia sono impliciti in qualsiasi “costruzione” e in qualsiasi contatto con un “centro”. Dato che la creazione del mondo cominciò in un certo centro, la creazione dell’uomo non potrebbe avvenire altro che in quel medesimo punto, REALE E VIVO in misura suprema. Secondo la tradizione mesopotamica, l’uomo fu plasmato nell’“ombelico della terra” in “uzu” (carne) “sar” (vincolo) “ki” (luogo, terra), là dove si trova anche “Dur-an-ki”, il “vincolo fra Cielo e Terra” [cfr. Burrows]. Ormuzd crea il bove primordiale, Evagdath, e l’uomo primordiale Gayomard, nel centro del mondo [cfr. Christenssen]. Il paradiso dove Adamo fu creato di creta sta, ben inteso, al centro del Cosmo. Il paradiso era l’“ombelico della terra” e, secondo una tradizione siriana, era situato «sopra una montagna più alta di tutte le altre» [Wensinck]. Secondo il libro siriaco “La Caverna dei Tesori”, Adamo fu creato al centro della terra, nello stesso punto ove era destinata a sorgere la Croce di Gesù [tr. W.Budge]. Le stesse tradizioni si sono conservate nel giudaismo [cfr. Hnhardt]. L’apocalisse giudaica e le “misdrah shim” precisano che Adamo fu plasmato a Gerusalemme [cfr. Burrows]; poiché Adamo fu sepolto nel punto stesso ove era stato creato, cioè nel centro del mondo, sul Golgota, il sangue del Redentore – come abbiamo già visto – lo riscatterà direttamente.

Modelli cosmici e riti di costruzione

La cosmogonia è il modello e il tipo di tutte le costruzioni, e ogni città, ogni nuova casa che si costruisce, imita ancora una volta, e in un certo senso ripete, la Creazione del Mondo. Infatti ogni città, ogni abitazione, sta al “centro dell’universo”, e in questo senso la sua costruzione è stata possibile soltanto abolendo lo spazio e il tempo profani e instaurando un tempo e uno spazio sacri [Eliade].

Come la città è sempre un’“imago mundi”, così la casa è un microcosmo. La soglia separa i due spazi, il focolare è assimilato al centro del mondo. Il palo centrale dell’abitazione dei popoli primitivi (“Urkultur” della scuola Graebner-Schmidt) artici e nord-americani (Samoiedi, Ainu, Californiani del nord e del centro, Algonchini) è assimilato all’Asse cosmico. Quando la forma dell’abitazione varia (ad esempio presso i pastori-allevatori dell’Asia centrale) e la casa è sostituita dalla yurta, la funzione mitico-religiosa del palo centrale è svolta dall’apertura superiore da cui esce il fumo. In occasione di sacrifici, si introduce nella yurta un albero, facendo uscire la cima da quel buco [Eliade]. L’albero sacrificale, con i suoi sette rami, simboleggia le sette sfere celesti. Sicché, da una parte, la casa è omologa dell’Universo e, dall’altra parte, è considerata come stante al “centro” del mondo; l’apertura praticata per il fumo è di fronte alla Stella Polare. Ogni abitazione, mediante il paradosso della consacrazione dello spazio e mediante il rito della costruzione, è trasformata in un “centro”, e quindi tutte le case – come tutti i templi, i palazzi, le città – sono situate in un solo e medesimo punto comune, il Centro dell’Universo. Si tratta, è chiaro, di uno spazio trascendente, con struttura completamente diversa da quella dello spazio profano, compatibile con la molteplicità, perfino con l’infinità, dei “centri”. In India, nel momento in cui si inizia la costruzione della casa, l’astrologo decide quale pietra delle fondamenta si deve porre sulla testa del serpente che sostiene il mondo. Il capomastro conficca un piolo nel punto prescelto, per “fissare” bene la testa del serpente ctonio, sì da evitare i terremoti [Eliade]. Non soltanto la costruzione della casa si colloca nel centro del mondo, ma, in un certo senso, la costruzione ripete la cosmogonia. Infatti è noto che, in mitologie innumerevoli, i mondi sono usciti dallo smembramento di un mostro primordiale, spesso in forma di serpente. Come tutte le abitazioni stanno, magicamente, al “Centro del Mondo”, così la loro costruzione si inserisce nello STESSO momento aurorale della creazione dei mondi (paragrafi 152 e seguenti). Il tempo mitico, proprio come lo spazio sacro, si RIPETE all’infinito, in occasione di ogni nuova opera umana.

Il simbolismo del “Centro”

In moltissimi miti e leggende compare un Albero cosmico che simboleggia l’Universo (i sette rami corrispondono ai sette cieli), un albero o una colonna centrale che sostiene il mondo, un Albero della Vita o un albero miracoloso che conferisce l’immortalità a chi mangia i suoi frutti, eccetera (confronta paragrafi 97 e seguenti). Ognuno di questi miti e leggende si riattacca alla teoria del “centro”, nel senso che l’Albero incorpora la realtà assoluta, la sorgente della vita e della sacralità, e in tale qualità sta al centro del Mondo. O che si tratti di un albero cosmico o di un Albero della vita immortale, o della scienza del bene e del male, la strada che a lui conduce è “via difficile”, sparsa di ostacoli: l’Albero si trova in regioni inaccessibili ed è custodito da mostri (paragrafo 108). Non è concesso al primo venuto di giungere fino all’albero né, una volta arrivato, di riuscire vittoriosi nel duello impegnato col mostro che vi sta di guardia. È destino degli “eroi” superare tutti questi ostacoli e uccidere il mostro che difende l’accesso all’albero o all’erba dell’immortalità, alle Mele d’Oro, al Vello d’Oro, eccetera. Come abbiamo avuto spesso occasione di constatare nei capitoli precedenti, il simbolo che incorpora la realtà assoluta, la sacralità e l’immortalità è di difficile accesso. I simboli di questa specie si collocano in un “centro”, cioè sono sempre ben difesi, e giungere fino a loro equivale a un’iniziazione, a una conquista (“eroica” o “mistica”) dell’immortalità. Senza pregiudicare il significato e la funzione originari del labirinto, è indubitabile che comprendevano l’idea di difesa di un “centro”.

Non era concesso A CHICCHESSIA penetrare in un labirinto o uscirne illeso; l’ingresso aveva un valore di iniziazione. Il labirinto poteva difendere una città, una tomba o un santuario, ma in tutti questi casi difendeva uno spazio magico-religioso, che si voleva rendere inviolabile dai non-eletti, i non-iniziati [cfr. Knight]. La funzione militare del labirinto era soltanto una variante della sua funzione essenziale di difesa contro il “male”, gli spiriti ostili e la morte. In termini militari, un labirinto vietava, o per lo meno complicava, la penetrazione del nemico, pur lasciando libero accesso a chi conosceva la pianta delle opere difensive. In termini religiosi, sbarrava l’accesso della città agli spiriti esterni, ai demoni del deserto, alla morte. Il “centro” comprendeva allora tutto il complesso della città, e la configurazione della città riproduceva, come abbiamo visto, l’universo stesso. Ma spesso il labirinto era destinato a difendere un “centro” nel primo e rigoroso senso della parola, cioè rappresentava l’accesso iniziatico alla sacralità, all’immortalità, alla REALTÀ ASSOLUTA. I rituali labirintici su cui si basa il cerimoniale dell’iniziazione (ad esempio, a Malekula) hanno appunto lo scopo di insegnare al neofita, già nel corso della sua vita terrena, il modo di penetrare senza smarrirsi nelle regioni della morte. Il labirinto, come le altre prove iniziatiche, è una prova difficile, che non tutti sono in grado di superare. In un certo senso l’esperienza iniziatica di Teseo nel labirinto di Creta equivaleva alla spedizione in cerca delle Mele d’oro nel giardino delle Esperidi o del Vello d’oro in Colchide. Ognuna di queste prove metteva capo, morfologicamente parlando, alla penetrazione vittoriosa in uno spazio difficilmente accessibile e ben difeso, ove stava un simbolo più o meno trasparente della POTENZA, della SACRALITÀ e dell’IMMORTALITÀ. Ma non si creda che questo “itinerario difficile” si attui soltanto nelle prove iniziatiche o eroiche già ricordate: lo ritroviamo in molte altre circostanze, per esempio nelle complicate circonvoluzioni di certi templi, come quello di Barabudur, i pellegrinaggi ai Luoghi Santi (Mecca, Hardwar, Gerusalemme, eccetera), le tribolazioni dell’asceta sempre alla ricerca della strada che lo conduca a se stesso, al “centro” del proprio essere, eccetera. La strada è ardua, sparsa di pericoli, perché in realtà si tratta di un rito di passaggio dal profano al sacro, dall’effimero e illusorio alla realtà e all’eternità, dalla morte alla vita e dall’uomo alla divinità. L’accesso al “centro” equivale a una consacrazione, a un’iniziazione; all’esistenza di ieri, profana e illusoria, succede una nuova vita, reale, duratura ed efficace. Osservata più da presso, la dialettica degli spazi sacri, e in primissimo luogo del “centro”, sembra contraddittoria. Tutto un complesso di miti, di simboli e di rituali concorda nell’insieme sulla difficoltà di penetrare senza danno in un “centro”, ma d’altra parte, e concorrentemente, una serie di miti, simboli e rituali stabilisce che quel centro è accessibile. Il pellegrinaggio ai Luoghi Santi è difficile, ma qualsiasi visita a una chiesa è un pellegrinaggio. L’albero cosmico si direbbe inaccessibile, ma è perfettamente lecito inserire nella prima yurta che capita un albero equivalente all’albero cosmico. L’itinerario che porta al “centro” è pieno di ostacoli eccetera, eppure ogni città, ogni tempio, ogni abitazione STA al centro dell’Universo. Penetrare in un labirinto e tornarne, è questo il rito iniziatico per eccellenza, nondimeno qualsiasi esistenza, perfino la meno agitata, può assimilarsi al cammino entro un labirinto. Le sofferenze e le “prove” attraversate da Ulisse sono favolose, eppure qualsiasi  RITORNO AL FOCOLARE “vale” il ritorno di Ulisse a Itaca.

La “nostalgia del Paradiso”

In una parola, tutti i simbolismi e tutte le assimilazioni passati ora in rassegna dimostrano che l’uomo, per diverso che siano, qualitativamente, lo spazio sacro e lo spazio profano, PUÒ VIVERE SOLTANTO IN UNO SPAZIO SACRO DI QUESTO GENERE. E quando lo spazio sacro non gli si rivela attraverso una ierofania, lo costruisce applicandogli i canoni cosmologici e geomantici. Quindi, benché il “centro” sia concepito situato “in qualche luogo” ove solo alcuni iniziati possono sperare di penetrare, tuttavia ogni casa pretende di essere costruita NEL CENTRO STESSO DEL MONDO. Potremmo dire che un gruppo di tradizioni attesta il desiderio dell’uomo di trovarsi SENZA SFORZO nel “centro del Mondo”, mentre un altro gruppo insiste sulla DIFFICOLTÀ, e di conseguenza sul MERITO, di penetrarvi. Per ora non ci interessa chiarire la storia di ciascuna di queste tradizioni. Il fatto che la prima – quella che facilita la costruzione del “centro” nella casa stessa dell’uomo – si ritrova quasi dappertutto, ci invita a considerarla se non addirittura la più primitiva, almeno significativa, caratteristica dell’umanità nel suo complesso. Questa tradizione pone in rilievo e tradisce una determinata condizione dell’uomo nel Cosmo, che potremmo chiamare NOSTALGIA DEL PARADISO, cioè il desiderio di trovarsi, SEMPRE E SENZA SFORZO, nel cuore del mondo, della realtà e della sacralità, in breve di superare in modo naturale la condizione umana e di ricuperare la condizione umana e di ricuperare la condizione divina; un cristiano direbbe: la condizione anteriore al peccato originale. Inoltre l’assimilazione del pilastro della casa con l’asse del mondo presso le popolazioni che appartengono alle civiltà primitive, nonché la credenza già da noi studiata altrove [Eliade] circa il congiungimento relativamente facile fra Cielo e terra, ci permettono di affermare che il desiderio dell’uomo di porsi in modo naturale e permanente entro uno spazio sacro, nel “centro del Mondo” poteva esse soddisfatto più facilmente nell’ambito delle società arcaiche, che non nelle civiltà successive. Infatti un tale risultato diventa sempre più difficilmente conseguibile. I miti di “eroi”, unici capaci di penetrare in un “centro”, si fanno più frequenti a misura che le civiltà da cui nascono sono più evolute. Le nozioni di merito, di coraggio, di vigorosa personalità, di prove iniziatiche, eccetera, hanno una parte sempre più importante, e sono alimentate e servite dal credito sempre più invadente attribuito alla magia e all’idea di personalità. Ma, in un caso e nell’altro, la NOSTALGIA DEL PARADISO si rivela a noi con pari intensità. Anche dove domina la tradizione di un “centro” munitissimo, si incontrano in gran numero gli “equivalenti” di tale centro, posti su livelli sempre più accessibili. Si potrebbe perfino parlare di “facili doppioni” del “centro”, come abbiamo visto che (paragrafo 111) l’Albero della Vita e l’erba dell’immortalità hanno trovato “facili doppioni” nella magia, la farmacologia e la medicina popolare, nel senso che QUALSIASI pianta magica o medicinale finisce per poterli sostituire. In breve, da qualsiasi punto di vista la consideriamo, la dialettica degli spazi sacri tradisce sempre la “nostalgia del paradiso”. Questi fatti sono pieni di interesse; fanno prevedere, anzi addirittura offrono, un prezioso contributo alla fondazione di un’autentica antropologia filosofica. Hanno innanzitutto il merito di rivelare, in una umanità che ancora si trova, secondo la frase fatta, “al livello etnografico”, una posizione spirituale che si distingue dai sistemi elaborati e logicamente coerenti della teologia e della metafisica soltanto per la povertà dei suoi mezzi di espressione (ridotti a simboli, a riti, a “superstizioni”). Ma appunto questa indigenza e volgarità dei mezzi di espressione dà un peso particolare all’atteggiamento spirituale così manifestato. L’autenticità di questi mezzi di espressione, la funzione importante che svolgono nella vita dei popoli primitivi e semi-civili, dimostrano in ogni caso che i problemi della metafisica e della teologia non sono affatto invenzione recente dello spirito umano e non rappresentano davvero una fase aberrante o transitoria nella storia spirituale dell’umanità. Ma la dialettica paradossale dello spazio sacro – spazio accessibile e inaccessibile, unico e trascendente da un parte, ripetibile a volontà dall’altra – deve essere studiata anche da un altro punto di vista. Infatti questa dialettica va classificata senza esitazione nell’ambivalenza del sacro (paragrafi 6 e seguenti). Abbiamo visto che il sacro attrae e respinge, è utile ed è pericoloso, dà sia la morte che l’immortalità. Questa ambivalenza rappresenta anch’essa una parte nel creare la morfologia densa e contraddittoria degli spazi sacri. Le qualità negative degli spazi sacri (inaccessibili, pericolosi, custoditi da mostri, eccetera) si debbono indubbiamente spiegare con morfologia “terribile” del sacro (tabù, pericolo, eccetera), e viceversa.   Concludendo, va detta una parola sui “doppioni facili dello spazio sacro” e in particolare su quello del “Centro”. La loro costruzione in serie e su piani sempre più “bassi” e “accessibili” (grazie a molteplici assimilazioni, TUTTO può diventare un “centro””, un labirinto, un simbolo di immortalità, eccetera) attesta una riproduzione, potremmo dire meccanica, di un solo e unico archetipo, in varianti sempre più “localizzate” e più “grossolane”. Non è qui il caso di occuparci ancora della struttura e della funzione di tali archetipi, che abbiamo già incontrato parecchie volte in altri capitoli: qualsiasi albero può diventare l’Albero cosmico, qualsiasi acqua è identificabile con le Acque primordiali, eccetera. Abbiamo dedicato al problema uno studio speciale (“Le mythe de l’Eternel Retour”) e avremo occasione di riparlarne. È sufficiente porre in evidenza che la “dinamica” e la “fisiologia” degli spazi sacri permettono di constatare l’esistenza di uno spazio sacro archetipale, e che le ierofanie e la consacrazione di qualsiasi spazio mirano a “realizzare” questo archetipo. La molteplicità dei “centro” si spiega, come abbiamo detto, con la struttura dello spazio sacro, che ammette la coesistenza di una “infinità” di “luoghi” in uno stesso centro. La “dinamica”, la “realizzazione”, di questa molteplicità, è resa possibile mediante la ripetizione di un archetipo. Abbiamo già constatato che l’archetipo è ripetibile al livello desiderato e nelle forme grossolane desiderate (confronta l’Albero sacro, le Acque sacre, eccetera); del resto, che l’archetipo sia suscettibile di imitazioni (ripetizioni) grossolane non è un fatto che si sembra significativo: realmente significativo è che l’uomo TENDA, anche ai livelli più bassi della sua esperienza “immediata”, ad AVVICINARSI all’archetipo e A REALIZZARLO. Se esiste un tratto rivelatore del posto che occupa l’uomo nel Cosmo, non è, ad esempio, la possibilità che l’Albero della Vita sia ridotto a una superstizione magico-medica qualsiasi, o la possibilità che il simbolo del centro si degradi a “doppione facile”, come il focolare, no; il posto dell’uomo nel COSMO è rivelato piuttosto dal BISOGNO CHE L’UOMO PROVA CONTINUAMENTE DI REALIZZARE GLI ARCHETIPI fino ai livelli più vili e più “impuri” della sua esistenza immediata, dalla nostalgia che l’uomo sente delle forme trascendenti (in questo caso, dello spazio sacro).]]>

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