Il paragrafo di apertura La storia ripercorre con precisione il rituale della Pasqua ebraica e dei sette giorni di pane azzimo. Le regole della Pasqua ebraica trattate dal Libro dell’Esodo (12:15) si trovano in dettaglio anche nei libri del Levitico, dei Numeri e nel Deuteronomio. La macellazione e la preparazione dell’agnello pasquale inizia una delle sere vicine a Pasqua, e allo stesso modo iniziano le Nozze Chimiche. Le Nozze Chimiche iniziano una sera mentre CRC è seduto ad un tavolo con davanti a sé sia l’agnello pasquale che il pane azzimo. Questo fatto sembra suggerire che CRC fosse ebreo. Tuttavia, curiosamente, nel primo paragrafo si trova la formula “Padre della Luce”; tale formula compare una sola volta nella Bibbia di Re Giacomo, mentre si trova nella Lettera di Giacomo (1:17). Questo l’incipit de “Le nozze Chimiche”: « Una sera prima del giorno di Pasqua sedevo al tavolo, e (come era mia abitudine) mi intrattenevo a lungo con il Creatore raccolto in umile preghiera. Pensavo ai molti grandi Misteri che il Padre nella Luce nella sua Maestà mi aveva mostrato in buona parte ed ero pronto a preparare nel mio cuore, grazie al mio caro Agnello Pasquale, una piccola fetta immacolata di pane azzimo. » (Le Nozze chimiche di Christian Rosenkreuz – Cap. I) I nove signori I nove signori rappresentano nove dei libri del Nuovo Testamento: Prima lettera di Pietro, Seconda lettera di Pietro, Lettera di Giacomo, Lettera di Giuda, Prima lettera di Giovanni, Seconda lettera di Giovanni, Terza lettera di Giovanni, Vangelo di Giovanni e Apocalisse di Giovanni. CRC credeva che il vangelo di Giovanni fosse l’unico storicamente accettabile, ed è proprio il pane azzimo e la sua relazione con la Pasqua Ebraica che effettivamente distingue il vangelo di Giovanni dai Vangeli sinottici. I nove signori vengono legati insieme al resto dei commensali (27 in totale) e CRC piange. I quattro sentieri Nel secondo capitolo CRC si siede a riposare sotto tre alti alberi di cedro e su uno di essi è fissata una targa che mostra quattro sentieri. È importante notare come nell’allegoria sia Lo sposo (cioè la Bibbia) ad offrire queste quattro diverse vie. Il primo sentiero conduce in una zona rocciosa, che simboleggia Pietro, “la roccia” come viene ritratto nei vangeli sinottici. Il secondo sentiero del testo è quello esposto nel vangelo di Giovanni, in quanto a CRC viene detto che su questo sentiero non deve girare né a destra né a sinistra e il racconto di Giovanni è l’unico che non menziona i due ladroni crocefissi alla destra e alla sinistra di Gesù. Il terzo sentiero è quello delle lettere di Pietro, Giacomo, Giuda e Giovanni. Nella prima lettera di Giacomo c’è un riferimento alla “via reale” o “legge reale” (2:8). Nella lettera di Pietro c’è l’unico riferimento a “uno tra mille”. Il quarto sentiero è quello delle lettere di Paolo. E quello dove si trova un riferimento ai morti risorti incorrotti (Prima lettera ai Corinzi 15:52) e l’unico dove nel Nuovo testamento compare la parola “logorante” (Lettera agli Ebrei 12:29). La storia continua con “Al che tirai fuori il mio pane e ne tagliai una fetta”. Non si può non notare che CRC taglia il pane dopo aver letto la targa. Il ventiquattresimo dei precetti di Pitagora dice di non spezzare mai il pane. Il pane viene spezzato nei vangeli di Marco, Luca e Matteo, ma non viene mai spezzato nel vangelo di Giovanni. Il pane viene spezzato anche nelle lettere di Paolo e negli Atti degli Apostoli, ma mai nelle lettere di Pietro, Giacomo, Giuda e Giovanni. Con il procedere della storia diventa evidente che CRC, con le parole “sono avanzato con la mia bussola, senza deviare di un passo dalla linea del Meridione ” intende dire che il sentiero da lui scelto è il secondo, in quanto non gira mai né a destra né a sinistra. Da notare anche come affermi “Presi con pazienza la mia croce e mi misi in cammino”: solo nel vangelo di Giovanni Gesù porta la croce, mentre nei sinottici a farlo per lui è Simone di Cirene. http://www.deutschestextarchiv.de/book/view/valentin_hochzeit_1616?p=5
IL LIBROPRIMO GIORNO Una sera, prima della Pasqua, ero seduto al mio tavolo secondo la mia abitudine, mi intrattenevo lungamente col mio Creatore in umile preghiera. Meditavo i grandi segreti che il Padre della Luce, nella sua Maestà, mi aveva lasciato contemplare in gran numero. Mentre volevo preparare nel mio cuore un pane azzimo senza macchia, con l’aiuto del mio amato Agnello pasquale, all’improvviso si levò un vento così terribile che non potei far a meno di pensare che la montagna nella quale era scavata la mia dimora sarebbe crollata a causa della sua grande violenza. Poiché non mi sorprendevo di questo o di cose simili, che venivano di solito dal diavolo (il quale mi aveva procurato molta sofferenza) mi feci animo e continuai nella mia meditazione, finché qualcuno mi toccò, inaspettato, sulla spalla, e fui tanto spaventato da questo che quasi non potei girarmi, sebbene allo stesso tempo restassi così tranquillo come la debolezza umana può permettere in tali circostanze. E poiché mi venne tirato parecchie volte il vestito, voltai infine lo sguardo e lì v’era una donna di splendente bellezza, dal vestito azzurro e graziosamente disseminato di stelle d’oro, come il cielo. Nella mano sinistra portava una tromba, tutta d’oro, sulla quale era inciso un nome, che potei leggere chiaramente, ma che in seguito mi fu vietato di svelare. Nella mano destra portava un grande fascio di lettere, in varie lingue, che lei (come ho saputo dopo) doveva portare in ogni Paese del mondo. Aveva anche delle ali grandi e belle, tutte piene di occhi, con le quali poteva prendere il volo e volare più velocemente di un’aquila. Avrei potuto forse notare qualcos’altro di lei, ma siccome rimase così poco con me e mi causò tanto spavento e tanta meraviglia, non posso dirne di più, eccetto che, quando mi voltai, frugò tra le sue missive, e tirò fuori finalmente una letterina, che mise sul tavolo con grande reverenza e, senza neanche una parola, se ne andò. Nel prendere il volo soffiò però con tanta forza nella sua tromba, che tutta la montagna ne risonò, e per quasi un quarto d’ora non riuscii a sentire più nemmeno la mia voce. In un’avventura così inaspettata, io, povero me, non sapevo consigliarmi nè aiutarmi: perciò caddi sulle ginocchia e pregai il mio Creatore perché non mi lasciasse accadere nulla contro la mia salvezza eterna. Poi presi, spaventato e tremante, la lettera, la quale era così pesante che, anche se fosse stata di oro puro, non avrebbe potuto esserlo di più. Mentre l’esaminavo con attenzione, vidi un piccolo sigillo col quale era chiusa. Su questo era incisa una croce sottile con l’iscrizione: “In hoc signo vinces”. Dal momento che trovai questo segno fui più rassicurato, perché sapevo che un tale segno non piace al diavolo, e ancora meno viene usato da lui. Perciò aprii con cura la lettera: dentro trovai, scritti su fondo blu con lettere d’oro, i versi seguenti: “Oggi, oggi, oggi, Sono le nozze del re. Se tu sei nato per questo, Eletto da Dio per la gioia, Puoi andare sulla montagna, Dove sono tre templi, Ad assistere agli avvenimenti. Stai attento, Guarda te stesso, Se tu non ti purifichi con cura, Le nozze possono farti male. Colui che è contaminato è in pericolo, Colui che pesa troppo poco, che si guardi!” Sotto era scritto: Sponsus et Sponsa. Quando lessi questa lettera, quasi persi i sensi, tutti i capelli mi si rizzarono sulla testa e un sudore freddo mi corse su tutto il corpo, perché, anche se mi ero accorto che queste erano le stesse nozze che mi erano state annunciate sette anni prima da un viso umano, e che aspettavo con grande desiderio da tanto tempo e che avevo trovato finalmente dopo calcoli rigorosi delle mie tavole dei pianeti, non avrei mai previsto che sarebbero avvenute in condizioni così dure e pericolose. Prima, avevo pensato che avrei dovuto solo presentarmi alle nozze, che sarei stato un ospite caro e benvenuto. Ma ora che tutto dipendeva dalla Grazia di Dio, della quale non ero sicuro neanche adesso, quanto più mi pesavo, tanto più trovavo che nella mia testa non c’era niente altro che una grande mancanza di comprensione ed una cecità delle cose segrete: a tal punto che non sapevo neppure comprendere quello che stava sotto i miei piedi e le cose con le quali vivevo ogni giorno, e tanto meno ritenevo di essere nato per la ricerca e la conoscenza dei segreti della Natura. Secondo la mia opinione, infatti, la Natura avrebbe potuto trovare un discepolo molto più virtuoso al quale affidare il suo tesoro, sia pur temporaneo e passeggero. Trovavo anche che il mio corpo e il mio comportamento (sia pure esternamente buono) e il mio amore verso il prossimo non erano ben purificati e puliti. Così pure si manifestava ancora il pungolo della carne, ed i sensi trovavano il loro piacere nelle apparenze magnifiche e nella pompa del mondo, e non nel far del bene al prossimo; pensavo sempre a come avrei potuto agire per il mio profitto attraverso la mia arte, costruire palazzi splendidi, farmi un nome eterno nel mondo ed altri simili pensieri carnali. Tuttavia, erano le parole oscure circa i tre templi, che non riuscivo a risolvere con nessuna meditazione, che mi preoccupavano particolarmente. Non sapevo forse neanche ancora quando tutto questo mi sarebbe stato meravigliosamente svelato. Trovandomi in tale spavento e speranza, andavo su e giù: mi trovavo però sempre solo con la mia debolezza e incapacità e allora non potevo aiutarmi in nessun modo, e mi spaventavo moltissimo davanti a questo preannunciato matrimonio. Quindi ripresi finalmente la mia vita abituale e la più sicura: mi misi a letto dopo aver finito una preghiera devota e fervente, in attesa che il mio buon angelo apparisse per divino destino (come già era successo parecchie volte) per comunicarmi che cosa, in quest’affare disperato, poteva succedermi per la gloria di Dio, per il mio bene e per il miglioramento e l’ammonizione cordiali del mio prossimo. Appena addormentato, mì sembrò di essere in una torre scura con un’infinità di altre persone, legate con catene, e tutti eravamo senza nessuna luce o chiarore e brulicavamo l’uno sopra l’altro come le formiche, e l’uno rendeva più pesante all’altro la sua miseria. Benché né io né nessuno fra noi vedesse niente, sentivo sempre l’uno alzarsi sopra gli altri nel momento in cui la sua catena o il suo peso diventavano anche soltanto leggermente meno pesanti, senza accorgersi che nessuno aveva molto vantaggio sugli altri, perché eravamo evidentemente tutti insieme poveri e del tutto ignoranti. Dopo essere rimasto insieme con gli altri per un bel po’ di tempo, sentendo ciascuno dare del cieco e dell’impedito all’altro, sentimmo finalmente suonare molte trombe e anche il tamburo di guerra, con tanta arte che ci sentivamo, malgrado tutto, ravvivati in fondo alla spina dorsale e rallegrati. Con questo suono venne tolta inoltre la chiusura della torre, e un po’ di luce arrivò sino a noi. Per la prima volta, potevamo vedere come eravamo in basso e come tutto era una gran confusione: e quello cui sembrava di essersi innalzato, si accorgeva invece di trovarsi tra i piedi degli altri. Ciascuno ora voleva essere il più alto, e così anche io non rimasi indietro e, malgrado le mie pesanti catene, mi spinsi avanti tra gli altri e mi alzai su una pietra che avevo scoperto. Benché parecchie volte fossi investito da altri, difesi la mia posizione il meglio possibile con le mani e i piedi. Eravamo ormai certi che saremmo stati tutti liberati: ma quel che successe fu diverso da quel che ci attendevamo. Dopo che i Signori dall’alto ci ebbero osservati guardando in giù attraverso l’apertura nella torre, divertendosi non poco al nostro dibatterci e piagnucolare, un vecchio grigio come ghiaccio ci disse di fermarci, e quando questo avvenne, incominciò a parlare, per quanto posso rammentarmi, come segue: “Se le aspirazioni della povera razza umana, Non fossero così presuntuose Quanto di buono le sarebbe dato Da una madre buona; Ma poiché non vuole obbedire, Rimane con tante preoccupazioni, E dev’essere imprigionata. La mia cara madre, comunque, Non vuole tener conto della sua disobbedienza, E lascia apparire i suoi preziosi beni Benché raramente, Di modo che valgano qualcosa: Altrimenti verrebbero considerati cose inventate. Perciò, in onore della festa Che noi oggi festeggiamo, Perché la sua grazia venga aumentata, Vuole fare un’opera buona. La corda verrà ora lasciata cadere: Colui che vi si attacca, Sarà liberato”. Non appena ebbe parlato così una vecchia donna ordinò ai servitori di lasciar cadere sette volte la corda nella torre, e di tirar su quelli che vi si sarebbero attaccati. Oh! Dio volesse che sapessi descrivere quale agitazione ci prese, perché tutti volevano afferrare la corda, e in tal modo ci ostacolavamo soltanto gli uni con gli altri. Dopo sette minuti fu dato un segno con una piccola campanella. A questo punto, i servitori tirarono su per la prima volta quattro fra di noi, e quella volta non potei assolutamente raggiungere la corda, siccome, come ho già raccontato, ero andato per mia grande sfortuna su una pietra vicina alla parete della torre, e perciò non potevo arrivare alla corda che pendeva giù nel mezzo. La corda fu lasciata cadere un’altra volta. Ma poiché per molti le catene erano troppo pesanti e le mani troppo deboli, non solo non riuscirono a reggersi ad essa, ma buttarono giù con loro molti che avrebbero potuto forse restarvi afferrati. Sì, parecchi furono anche tirati giù da qualcuno che non riusciva ad arrivarci egli stesso: così, nella nostra grande miseria, ci invidiavamo sempre. Mi spiaceva di più, però, per quelli che avevano un peso tanto pesante che le mani stesse venivano loro strappate dal corpo e non potevano neanche uscir fuori. Così, dopo cinque volte, furono sollevati pochissimi di noi, perché subito dopo il segno i servitori erano tanto veloci nel tirar su la corda che per la maggior parte capitombolavano l’uno sopra l’altro; e la quinta volta la corda fu tirata su anche senza nessuno attaccato. Perciò la maggior parte, me compreso, rinunciavamo già alla nostra liberazione e chiamavamo Dio, che volesse aver pietà di noi e, se fosse possibile, liberarci da questa oscurità, ed Egli ascoltò parecchi di noi. Quando la corda venne giù per la sesta volta, molti si aggrapparono saldamente. Siccome la corda dondolava da un lato all’altro nel tirarla su, arrivò, certo per volontà di Dio, anche a me, e io l’afferrai subito, stando sopra tutti gli altri e, contrariamente ad ogni speranza, venni finalmente fuori, cosa che mi diede tanta gioia da non farmi sentire la ferita nella testa, che ricevetti da una pietra appuntita nel tirarmi su, se non dopo aver dovuto aiutare, con altri liberati, il settimo ed ultimo tiro. Il sangue infatti mi corse su tutto il vestito a causa del lavoro, cosa alla quale non avevo fatto attenzione prima per via della mia gioia. Quando fu compiuto anche l’ultimo tiro, nel quale si era attaccato alla corda il maggior numero di prigionieri, la donna fece mettere via la corda e il suo vecchissimo figlio (cosa che mi faceva molta meraviglia) annunciò agli altri prigionieri il suo ordine, e disse, dopo un momento di riflessione, quanto segue: “Cari figli Che state quaggiù, È finito Quello che era previsto da tanto tempo, Quello che è stato accordato ai vostri fratelli Per la grazia di mia madre. Non dovete nutrire invidia: Tempi di gioia presto arriveranno. Allora l’uno sarà uguale all’altro, Nessuno sarà ricco o povero; Colui al quale è domandato molto Deve anche rendere molto, Colui al quale è stato affidato molto, Deve stare attento alla sua vita. Perciò cessate il vostro lamento: E’ poco aspettare qualche giorno”. Appena ebbe finito di dire queste parole, il coperchio fu chiuso di nuovo e assicurato, e il suono delle trombe e dei tamburi di guerra si levò ancora. Ma per quanto forte fosse quel suono, si sentiva sempre il lamento amaro degli incarcerati, che veniva dalla torre, e che mi fece scorrere le lacrime dagli occhi. Poi la vecchia si sedette con suo figlio su un seggio già preparato e diede l’ordine di contare coloro che erano stati liberati. Quando ne apprese il numero, e dopo averlo scritto su una tavoletta d’oro, chiese ad ognuno il suo nome, che veniva registrato da un paggio. Dopo che ci ebbe guardati tutti, l’uno dopo l’altro, sospirò e disse a suo figlio, in modo che io lo sentissi: “Oh! che grande pena mi fanno quelli nella torre! Dio volesse che potessi liberarli tutti”. A questo il figlio rispose: “Madre, così è stato ordinato da Dio, non dobbiamo opporci a questo; se fossimo tutti signori e possessori dei beni della terra, quando siamo a tavola, chi ci porterebbe da mangiare?”. A questo la madre non replicò altro. Ma ben presto disse: “Adesso, liberate costoro dalle loro catene”. Questo fu subito fatto ed io fui quasi l’ultimo. Allora, sebbene mi fossi regolato dapprima sempre secondo gli altri, mi inchinai davanti alla vecchia e ringraziai Dio, che attraverso di lei mi aveva portato, in modo clemente e paterno, dal buio alla luce; altri fecero poi lo stesso e si inchinarono davanti alla donna. Infine fu donata a tutti una medaglia in ricordo. Da una parte era inciso il Sole nascente e dall’altra, per quanto rammento, le tre lettere D.L.S. [Deus Lux Solis; Deo Laus Semper (Dio luce del Sole: Sempre lode a Dio)]. Poi venne dato a tutti il permesso di andare ed ognuno fu mandato ai suoi affari, con la raccomandazione di vivere lodando Dio e al servizio del nostro prossimo, e mantenere il silenzio su quello che ci era stato affidato, cosa che promettemmo tutti di fare prima di dividerci. lo non potevo camminare facilmente, ma zoppicavo con tutti e due i piedi, cosa di cui la vecchia si accorse, ne rise, mi chiamò ancora una volta a lei e mi disse: “Figlio mio, non lasciarti affliggere da questa infermità, ma ricordati delle tue debolezze e ringrazia Dio che ti ha fatto arrivare fino a questa alta luce, già in questo mondo e nella tua imperfezione, e sopporta queste ferite in ricordo di me”. A questo punto si alzò ancora una volta il suono delle trombe, cosa che mi spaventò in modo tale che mi svegliai e mi accorsi soltanto allora che era stato un sogno. Ma ero rimasto così fortemente impressionato che ero sempre preoccupato a causa del sogno, e mi sembrava di sentire ancora le ferite ai piedi. Da tutto ciò, capivo, che mi era concesso da Dio di assistere a queste nozze segrete e velate, e per questo ringraziai la Sua Divina Maestà, e la pregai con fede filiale che mi volesse tenere sempre nel suo timore e riempire ogni giorno il cuore di saggezza e di comprensione, e infine di portarmi per mezzo della Sua grazia allo scopo desiderato, anche se non lo meritavo. Dopo di questo, mi preparai al viaggio, indossai il mio vestito bianco, mi fasciai con un nastro rosso come il sangue, legato in forma di croce sulle spalle e intorno ai fianchi. Infilai quattro rose nel cappello: sperando che tutti questi segni mi facessero notare più facilmente nella folla. Come cibo presi del pane, del sale e dell’acqua, cose che mi erano state consigliate da un Saggio, e che avevo trovato molto utili a suo tempo in diversi casi. Prima di lasciare la mia casa, mi misi in ginocchio con il vestito di nozze e pregai Dio che, qualsiasi cosa avvenisse, mi conducesse a un buon fine, e giurai davanti a Dio che se mi avesse svelato nella Sua clemenza qualcosa, io non l’avrei usata per avere onore e considerazione mondana, ma per far rispettare il Suo nome, e al servizio dei miei fratelli umani. E con questo voto, con la speranza e la gioia, lasciai la mia cella. SECONDO GIORNO Appena uscito dalla mia cella, e entrato nella foresta, mi sembrò che il cielo intero e tutti gli elementi si fossero adornati per quelle nozze. Mi pareva anche che gli uccelli cantassero più graziosamente di prima; i cerbiatti saltavano con tanta gioia che il mio vecchio cuore si rallegrava ed ero spinto a cantare. Così incominciai a cantare a voce alta: “Godi, uccellino, Nel lodare il tuo Creatore, Alza chiara e fine la tua voce, Il tuo Dio è tanto alto, Ti, ha preparato il cibo, Ti nutre sempre quando occorre, Sii soddisfatto cosí. Perché vuoi essere triste, Perché inquietarti con Dio D’averti fatto piccolo, Perché allora chiederti Come mai Egli non ti abbia fatto uomo? Taci, Egli ha pensato profondamente su questo: Sii soddisfatto cosí. Cosa farei io, verme della Terra, Se cominciassi a discutere con Dio? Cercherò di forzare l’entrata al Cielo, Per rapire con violenza la grande arte? Non è possibile misurarsi con Dio; Che l’indegno se ne vada. Uomo sii soddisfatto. Non essere offeso Perché Egli non ti ha fatto imperatore. Se tu hai disprezzato il Suo nome, Egli ne tiene conto. Gli occhi di Dio sono i più chiari, Egli ti guarda fin nel cuore: Perciò non ingannerai Dio!” Cantavo questo dal fondo del mio cuore mentre attraversavo il bosco, che ne risuonava dappertutto; la montagna stessa echeggiò le mie ultime parole. Finalmente apparve un prato verde e uscii dal bosco. Su questo prato stavano tre cedri alti e belli che erano così larghi da offrire un’ombra splendida e assai desiderata, che godetti molto, perché, pur non avendo fatto molta strada, il mio grande desiderio mi rendeva stanco. Perciò mi avvicinai in fretta agli alberi per riposarmi un momento lì sotto. Avvicinandomi, scoprii una tavoletta attaccata ad uno degli alberi, sulla quale erano scritte, in lettere graziose, le parole seguenti, che poi lessi: “Ospite,salute: se tu hai sentito parlare delle nozze del Re, in tal caso pesa esattamente queste parole. Attraverso di noi, lo sposo ti offre la scelta di quattro vie per ognuna delle quali potrai raggiungere il Palazzo del Re, in modo che non ti perda in sviamenti. La prima è breve ma pericolosa e passa attraverso vari scogli che tu potresti superare soltanto a gran fatica. La seconda è più lunga ed è piana e facile se, con l’aiuto del Magnete, non ti lascerai sviare nè a destra nè a sinistra. La terza è in verità la Via Regia, e diversi piaceri e spettacoli del nostro Re ti renderebbero il cammino gioioso. Ma appena uno su mille può raggiungere la meta attraverso di essa. Tramite la quarta nessun uomo può arrivare al Palazzo del Re, perché essa consuma ed è adatta soltanto ai corpi incorruttibili. Scegli dunque fra queste tre vie quella che vuoi, e seguila con costanza. Sappi anche che qualsiasi via tu abbia scelta, per virtù di un destino immutabile, non ti è lecito tornare indietro che a gran rischio della tua vita. “Ecco quello che noi abbiamo voluto che tu sapessi, ma fa’ attenzione a non ignorare con quanto pericolo tu ti sarai affidato a questa via: infatti, se ti dovesse capitare di renderti colpevole del minimo delitto contro la legge del nostro Re, io ti prego, finché sei ancora in tempo, di ritornare al più presto a casa tua per la stessa strada che hai seguita per arrivare sin qui”. Appena letta questa scritta, tutta la mia gioia era di nuovo sparita e, mentre avevo cantato cosí allegramente prima, adesso cominciai a piangere: perché vedevo tutte insieme le tre vie davanti a me e sapevo che mi era concesso di sceglierne una sola. Avevo paura, se avessi preso la via rocciosa di montagna, di cadere miserabilmente nella morte; o se mi veniva in sorte la strada lunga, che avrei potuto o smarrirmi nel cammino o non compiere il lungo viaggio per un’altra ragione; non potevo neanche sperare di essere proprio quello, tra mille, che doveva scegliere la Via Regia. Vedevo ugualmente la quarta davanti a me, ma era cosí circondata da fuoco e da vapori che non potevo neanche pensare ad avvicinarmi ad essa. Riflettei, quindi, ad ogni possibilità: se dovessi tornare, o se dovessi scegliere una di quelle strade. Ero conscio della mia indegnità; mi consolava comunque il sogno di essere stato liberato dalla torre. Però non dovevo fidarmi arditamente di un sogno; rimasi a riflettere dunque per molto tempo, finché, a causa della mia grande stanchezza, la fame e la sete entrarono nel mio corpo. Tirai fuori quindi il mio pane e lo tagliai, il che fu avvertito da una colomba bianca come la neve che era posata su un albero e della quale non mi ero accorto. Lei, forse seguendo una sua abitudine, scese e venne dolcemente verso di me, ed io divisi volentieri il mio pane con lei: l’accettò e si ravvivò un po’ mangiandolo. La vide subito il suo nemico, un corvo nero, che scese sulla colomba, e, non curandosi di me, voleva rubare alla colomba quello che aveva, al che lei non poté fare altro che salvarsi fuggendo. I due presero il volo verso il Sud, ed io ero cosí adirato ed afflitto che corsi, senza riflettere, dietro il corvo malvagio, e senza volere percorsi la lunghezza di un acro nella via prescritta, mandai via il corvo e salvai la colomba. Solo allora mi accorsi che avevo agito senza pensare e che già ero entrato in una via, dalla quale non potevo tornare senza rischiare grande castigo. Me ne sarei consolato se non mi fosse dispiaciuto vivamente di aver lasciato la mia bisaccia e il mio pane sotto all’albero e di non poterli piú andare a cercare, perché, appena mi girai, mi venne incontro un vento cosí forte che mi avrebbe facilmente fatto cadere, mentre invece se continuavo per la strada non mi accorgevo di niente: cosa dalla quale capii che oppormi al vento mi sarebbe costata la vita. Cosí, accettai con pazienza la mia croce, mi misi in cammino e pensai che siccome doveva essere cosí, dovevo fare lo sforzo di arrivare prima della notte. Poiché sembrava vi fossero molte deviazioni, tirai fuori la bussola e non mi spostai neppure di un passo dalla direzione del Sud, benché la via fosse talvolta tanto impraticabile che dubitavo non poco di essa. Strada facendo pensavo continuamente alla colomba e al corvo, ma non potevo indovinarne il significato. Finalmente, vidi da lontano una vasta porta su un’alta montagna, verso la quale mi affrettai, benché stesse ad una grande distanza dalla mia strada, in quanto il Sole era già sceso dietro le montagne e non vedevo nessun altro paese dove sostare; attribuii questo a Dio, che forse avrebbe potuto volermi far continuare su questa strada ed impedire ai miei occhi di vedere la porta. Mi ci avvicinai in fretta, come già descritto, e arrivai che c’era ancora un po’ di luce del giorno in modo che la potevo vedere appena sufficientemente. Era davvero una porta regale splendida, nella quale erano incisi molti disegni, ognuno dei quali (come appresi dopo) aveva un suo particolare significato. In alto, sul frontone, c’erano le seguenti parole: “Procul hinc, procul ite, Prophani” (“Lontani da qui, allontanatevi, o profani”), ed altro di cui mi è stato severamente vietato di parlare. Appena arrivai sotto la porta, apparve un uomo vestito di blu cielo, che salutai in modo amichevole; egli mi ringraziò e chiese la mia lettera d’invito. Oh! Come ero contento di averla portata con me: perché avrei potuto facilmente dimenticarla, come avevano fatto anche altri, secondo quanto egli stesso mi raccontava. La presentai subito e lui non solo ne fu contento ma mi onorò molto, cosa che mi meravigliò, e disse, “Entra fratello, per me sei un invitato benvenuto”. Mi pregò di dirgli il mio nome. Quando gli risposi che ero il fratello della Rossa Rosa Croce, si meravigliò e anche di questo fu contento; poi disse: “Fratello, hai qualcosa con te per poter comprare un’insegna?”. Io risposi che la mia fortuna era piccola, ma se egli vedeva qualcosa su di me che gli piaceva, che la prendesse. Siccome mi chiedeva la mia bottiglia d’acqua, io consentii, e mi diede un’insegna d’oro, con sopra solo le due lettere S.C. (Sanctitate Constantia; Sponsus Charus, Spes Charitas – Costanza della santità; Sposo per amore; Speranza, Carità), raccomandandomi, quando questo mi avrebbe procurato del bene, di pensare a lui. Dopo di ciò chiesi quanti erano entrati prima di me, cosa che egli mi disse. Finalmente, per amicizia, mi diede una lettera sigillata per il guardiano seguente. Siccome mi trattenni abbastanza a lungo con lui, arrivò la notte e quindi fu accesa una grande torcia di pece sulla porta, perché, se qualcuno fosse sulla strada, potesse arrivarci in fretta; la via che arrivava fino al castello era chiusa tra due mura e vi erano piantati ai lati dei meravigliosi alberi con tutti tipi di frutta: e ogni tre alberi ad ogni lato della strada, erano state appese delle lanterne, che erano state accese con una torcia splendida da una bella Vergine in un vestito azzurro. Questo era tutto cosí maestoso e magnifico che rimasi lí piú tempo che non fosse necessario. Finalmente, dopo aver avuto abbastanza informazioni ed indicazioni, salutai amichevolmente il primo guardiano. Strada facendo, ero curioso di sapere che cosa fosse scritto nella mia lettera, ma siccome non dovevo pensare male del guardiano, dovetti frenare la mia indiscrezione e avanzare sulla strada finché raggiunsi altre porte che erano quasi identiche alle prime, solo che erano decorate da altri disegni e significati occulti. Sul frontone stava scritto “Date et dabitur vobis” (“Date e vi sarà dato”). Sotto la porta, attaccato ad una catena, giaceva un leone terribile che si alzò appena mi vide, e mi venne incontro ruggendo. A questo, l’altro guardiano, che era sdraiato su un blocco di marmo, si alzò e mi disse di non spaventarmi né preoccuparmi. Ricacciò il leone indietro e lesse la lettera che gli porgevo tremante. Poi mi disse con reverenza: “Sia benvenuto da Dio, l’uomo che volevo vedere da tanto tempo”. Nel frattempo tirò fuori anche lui un’insegna e mi chiese se la potevo scambiare. Siccome io non avevo niente altro che il mio sale, gli offrii quello ed egli lo accettò, ringraziandomi. Sull’insegna c’erano ancora una volta solo due lettere, cioè S.M. (Studio Merentis; Sal Memor, Sponso Mittendus; Sal Mineralis; Sal Menstrualis – Desiderio di meritare; Sale del ricordo; Da mandare allo Sposo; Sale minerale; Sale mestruale). Volevo parlare anche con lui ma si cominciò a suonare nel castello, ed il guardiano mi esortò a correre, altrimenti i miei sforzi e tutto il mio lavoro sarebbero stati inutili, perché lassú si iniziavano a spegnere le luci. Feci tanto in fretta che mi dimenticai, nella mia paura, di salutare il guardiano; ed ebbi ragione, perché non potevo correre abbastanza in fretta da non essere sorpassato dalla Vergine, dopo la quale tutte le luci si spegnevano. Non avrei neanche potuto trovare la strada se lei non mi avesse fatto luce con la sua torcia. Potei appena entrare dopo di lei, quando la porta si chiuse cosí in fretta che un pezzo del mio vestito rimase chiuso fuori, ed io naturalmente dovetti lasciarlo indietro perché né io né quelli che già chiamavano da fuori la porta potevamo persuadere il guardiano a riaprire; infatti, egli diceva di aver dato la chiave alla Vergine che l’aveva portata con sé nel cortile. Nel frattempo esaminavo la porta, che era cosí magnifica che non ne esiste una simile in tutto il mondo. Vicino alla porta c’erano due colonne. Sull’una era posta una statua sorridente con l’iscrizione Congratulator (Mi congratulo). Sull’altra una statua la cui figura triste nascondeva il viso; sotto di essa era scritto Condoleo (Compatisco). Insomma, scritte ed immagini erano cosi oscure e misteriose che l’uomo più abile sulla Terra non avrebbe potuto decifrarle. Se Dio lo permette, tutte quante saranno, però, portate alla luce del giorno e svelate. Passando sotto questa porta, dovetti ancora una volta dare il mio nome, che venne scritto per ultimo in un libro di pergamena e subito mandato con altri al grande sposo. Lí mi fu data per la prima volta la vera insegna dell’invitato, che era un po’ più piccola delle altre ma molto piú pesante, e su di essa erano le tre lettere S.P.N. (Salus per naturam; Sponsi praesentandus nuptiis (Salute per mezzo della natura – Da presentare alle nozze dello Sposo). Mi fu dato inoltre un nuovo paio di scarpe, perché il pavimento del castello era fatto tutto di marmo brillante. Dovetti dare quelle vecchie ad un povero scelto da me, tra i molti che erano seduti in buon ordine sotto la porta. Le regalai ad un vecchio; poi un paggio seguito da altri due che portavano torce, mi accompagnò in una piccola stanza. Lí mi dissero di sedermi su un banco, cosa che feci. Loro però piantarono le loro torce in due fori nel pavimento e se ne andarono, lasciandomi seduto lí da solo. Subito dopo, sentii un rumore ma non vidi niente, e poi fui preso da parecchi uomini; siccome io non vedevo nulla, dovetti lasciar fare ed aspettare quello che mi sarebbe successo. Mi accorsi ben presto che erano barbieri e perciò li pregai di non tenermi cosí strettamente perché ero comunque disposto a fare quello che mi avessero chiesto. Cosí mi lasciarono subito libero ed uno, che però non vedevo, mi tagliò in modo fine e ben pulito i capelli della testa, lasciando stare tuttavia i lunghi capelli grigi sulla fronte e sulle tempie. Devo ammettere che, in un primo momento, ero veramente disperato, perché alcuni di loro mi afferravano con tanta forza, ed io non vedevo niente, cosí che non potevo far a meno di pensare che Dio mi aveva abbandonato a causa della mia troppa curiosità. Infine, questi barbieri invisibili raccolsero diligentemente i capelli tagliati e li portarono via. I due paggi delle torce si presentarono di nuovo e risero di cuore perché io avevo avuto tanta paura. Stavano conversando un po’ con me, quando si cominciò di nuovo a suonare una piccola campanella per dare il segno (cosí mi dicevano i paggi) di radunarsi. Perciò mi dissero di seguirli, e mi illuminarono la via attraverso molti corridoi, porte e stanze in una vasta sala. In questa sala c’era un gran numero di invitati, di imperatori, re, principi e signori, nobili e non nobili, ricchi e poveri e plebaglia di tutti tipi che mi meravigliavano molto, e pensavo: “Che grande idiota sei stato, ad aver intrapreso un viaggio cosí duro e difficile. Guarda! Lí c’è gente che tu conosci e che magari hai stimato poco. Quelli sono tutti qui adesso e tu, con tutto il tuo pregare e supplicare, sei arrivato per ultimo e con gran fatica”. Questi ed altri pensieri mi furono ispirati dal diavolo, malgrado tutti i miei sforzi per respingerli. Nel frattempo mi parlavano prima uno, poi l’altro di quelli conosciuti da me: “Guarda, fratello Rosenkreuz, sei qui anche tu?”. “Sì, fratello,” rispondevo. “La grazia di Dio ha aiutato anche me ad entrare”, alla quale risposta ridevano molto, in quanto consideravano cosa ridicola aver bisogno di Dio per una impresa così da poco. Mentre chiedevo a tutti informazioni sulla strada che avevano percorsa (parecchi avevano dovuto scalare la montagna), s’incominciarono a suonare forte le trombe, che però non vedevamo, per chiamarci a tavola; molti allora si sedettero a seconda della posizione che sembrava a loro adatta: perciò c’era rimasto appena posto per me ed altra povera gente alla tavola piú bassa. Ben presto arrivarono i due paggi ed uno di loro disse una preghiera tanto bella e splendida che il mio cuore si rallegrò. Parecchi spacconi, tuttavia, non badavano a questa ma ridevano fra di loro, si facevano segni, fingevano di mangiarsi i capelli e facevano altri scherzi di questo genere. Dopo di che venne portato da mangiare, e benché non si vedesse nessuno, tutto era fatto con un tale ordine che mi sembrava che ogni invitato avesse il suo proprio servitore. Quando poi gli ospiti si furono rilassati un po’ e il vino ebbe tolto parte del ritegno dai loro cuorì, si vantarono tutti, facendo sfoggio dei loro poteri. Uno voleva tentare questa cosa, l’altro quell’altra e gli idioti piú grandi facevano il fracasso maggiore. Quando penso alle cose innaturali ed impossibili che li ho sentiti voler fare, provo ancora oggi indignazione. Per finire si cambiarono di posto, ma gli adulatori s’infilavano tra i signori e si vantavano di imprese che né Sansone né Ercole con tutta la loro forza avrebbero potuto fare. Uno voleva liberare Atlante del suo peso, l’altro voleva tirar fuori di nuovo dall’inferno Cerbero, dalle tre teste. Insomma, ognuno aveva il suo vanto, e i grandi Signori erano cosí stupidi da prestar loro fede. I malvagi cosí audaci che, benché qualcuno ricevesse ogni tanto un colpo di coltello sulle dita, non ci badavano. Quando uno diceva di essersi impadronito di una catena d’oro, tutti gli altri andavano avanti in questo senso, in concorso uno con l’altro. Ho visto uno pretendere di sentire il suono dei cieli. Un altro poteva vedere le idee di Platone. Un terzo voleva contare gli atomi di Democrito. C’erano anche non pochi che avrebbero scoperto il perpetuum mobile. A mio parere, parecchi avevano una buona intelligenza, solo che, sfortunatamente per loro, essi stessi ne avevano un’opinione troppo buona. Finalmente c’era anche uno che voleva convincerci che vedeva i servitori che servivano a tavola, e sarebbe andato avanti per un po’ di tempo, se uno dei servitori invisibili non gli avesse dato un colpo sul suo muso da mentitore, di modo che non solo lui, ma anche molti che erano vicino a lui diventarono silenziosi come le mummie. Mi fece molto piacere, però, vedere che quelli che stimavo di piú si comportavano ben tranquillamente e non alzavano la voce, ma riconoscevano di essere degli ignoranti, per i quali i segreti della Natura erano troppo elevati, come loro erano troppo inadeguati. In mezzo a questo tumulto mi sarei quasi pentito del giorno del mio arrivo lí: perché mi faceva male vedere che c’era gente disonesta e frivola alla tavola piú alta, mentre io non potevo rimanere in pace anche in un posto cosí basso, perché uno di quegli scellerati mi scherniva come pazzo completo. Io non pensavo che ci sarebbe stata un’altra porta da passare, ma immaginavo che avrei dovuto passare tutte le nozze deriso e disprezzato, cosa che non avevo meritato né dallo sposo né dalla sposa, e stimavo dunque che essi avrebbero dovuto perciò trovare un altro che facesse da buffone per le loro nozze. Guardate come la diseguaglianza di questo mondo induce le anime semplici ad una mancanza di rassegnazione; ma questa era una parte della mia infermità, della quale avevo sognato, come dicevo prima. E il tumulto aumentava sempre di piú, a causa di quelli che si vantavano di storie false e inventate e volevano far credere a dei sogni evidentemente non veri. C’era, però, un uomo di buone maniere e tranquillo seduto accanto a me che parlava ogni tanto di cose belle ed interessanti. Finalmente disse: “Guarda, fratello, se arrivasse uno per mettere questa gente impenitente sulla strada giusta, verrebbe ascoltato?”. “No di certo,” risposi. “Così”, disse lui, “il mondo vuole essere forzato ad illudersi e non vuole ascoltare quelli che gli vogliono bene. Vedi con quali immagini pazze e pensieri stupidi egli tira la gente a sé. Lí uno sbeffeggia la gente con parole occulte mai sentite. Ma, credimi, verrà il tempo in cui le maschere saranno tolte dal viso di questi truffatori per mostrare a tutto il mondo che genere di ingannatori nascondevano. Allora saranno ancora una volta rispettate quelle cose che sono disprezzate da tanto tempo.” Mentre parlava cosí, e il rumore, perdurando, diventava sempre peggiore, si levò inattesa nella sala una musica cosí dolce e solenne che non ho mai sentito qualcosa di simile durante tutta la mia vita; ad essa, tutti tacquero per aspettare cosa ne sarebbe seguito. Questa musica era fatta da tutti i tipi di strumenti a corda che si possono immaginare, accordati con tanta armonia, che mi dimenticai di me stesso e rimasi seduto lí senza alcun movimento, di modo che quelli seduti vicino a me si meravigliavano. Questo durò quasi mezz’ora, durante la quale nessuno di noi disse una sola parola, perché, appena uno voleva aprire la bocca, riceveva un colpo inaspettato su di essa, senza sapere da dove veniva. Pensavo che, siccome non potevamo vedere i musicisti, avrei voluto vedere almeno gli strumenti che usavano. Dopo una mezz’ora la musica smise all’improvviso e non vedemmo né sentimmo niente altro. Subito dopo si levò un grande fragore e suono di tromboni, e un rullío di tamburi di guerra davanti alla porta della sala, il tutto cosí maestoso che sembrava che stesse per entrare un imperatore romano. Poi la porta si aprí da sola, di modo che le trombe diventarono cosí forti che quasi non potevamo sopportarne piú il suono. Nel frattempo entravano nella sala migliaia di luci che, da sole, si tenevano nel giusto ordine, di modo che noi ci spaventammo molto, finché i due paggi già menzionati prima entrarono nella sala portando delle torce brillanti ed illuminando la strada ad una Vergine bellissima seduta su di uno splendido trono d’oro che si muoveva da solo; mi sembrava che fosse la stessa che prima aveva acceso e spento le luci sulla strada, e che fossero proprio esse i suoi servitori: le medesime luci che aveva posto prima negli alberi. Lei non era piú vestita di azzurro ma aveva un abito splendente in bianco puro, che brillava di oro ed era cosí luminoso che non potevamo guardarla con insistenza. I due paggi erano vestiti nello stesso modo, ma un po’ meno splendidamente. Quando fu arrivata in mezzo alla sala e scese dal trono, tutte le luci s’inchinarono davanti a lei. Noi ci alzammo tutti dai nostri banchi, ma rimanemmo ognuno al proprio posto. Dopo che lei ci ebbe salutati onorevolmente, e ci ebbe dimostrato ogni riverenza e onore, e anche noi a lei, incominciò a parlare con voce dolcissima: “Il Re, il mio grazioso Signore, Che adesso non è molto lontano, Come anche la sua carissima sposa, Affidata a lui in onore, Hanno già visto con grande gioia, Il vostro arrivo. Onorano del loro favore ognuno di voi, E dal fondo del cuore ad ogni istante, Vi augurano che abbiate successo, Di modo che alla gioia delle loro prossime nozze, Non venga mischiata la sofferenza di nessuno.” Poi s’inchinò con cortesia, e insieme a lei tutte le sue luci, e subito dopo cominciò come segue: “Sapete che nella lettera d’invito, Non fu chiamato qui nessuno, Che non abbia ricevuto i doni piú belli Da Dio tempo addietro, E che non sia preparato con rigore, Come occorre in tali cose; Perciò non credo Che nessuno sia stato cosí audace, Sotto tali condizioni difficili, Da presentarsi qui Senza essersi preparato da molto tempo Per le nozze. Perciò essi hanno buone speranze Che vada tutto bene per voi, E sono felici di trovare tanta gente, In tempi cosí difficili. Ma gli uomini sono cosí audaci Che la loro grossolanità non li ferma, E si spingono avanti In posti dove non furono chiamati. Dunque, perché i furbi Non possano truffare, E nessun indegno s’intrufioli fra gli altri; E perché loro possano celebrare presto delle nozze pure Senza dover nascondere nulla, Domani sarà montata La Bilancia degli Artisti Per pesare accuratamente Quello che ognuno ha dimenticato a casa: Se si trova qualcuno in questa folla, Che non abbia completa fiducia in sé, Egli deve mettersi da parte in fretta, Perché se accade che rimanga qui, Non riceverà più grazia, E domani sarà punito. Quelli che vogliono sondare la loro coscienza, Dovranno restare qui, oggi, in questa sala, E fino a domani saranno liberi, Ma che non tornino piú qui! Se qualcuno è sicuro del suo passato, Che vada col suo servitore, Che gli mostrerà la sua camera; Lí potrà riposarsi bene oggi, Aspettando la gloria della Bilancia: Altrimenti avrà un sonno molto difficile; Gli altri staranno meglio qui. Perché colui che pretende troppo, Farebbe meglio a fuggir via. Si spera che ognuno agisca per il meglio.” Appena finito di dire queste parole, s’inchinò ancora una volta, e salì con gioia sul suo seggio: poi cominciarono a suonare ancora una volta le trombe, che però non potevano fermare i sospiri pesanti di molti di noi: infine i suonatori invisibili la condussero fuori, mentre la maggior parte delle luci rimanevano nella sala, ognuna legandosi ad uno di noi. In un tale perturbamento non è possibile esprimere quali pensieri deprimenti e quali gesti di disperazione furono scambiati. La maggior parte era sempre decisa a tentare la Bilancia e, se non fossero stati all’altezza, ad andarsene in pace (cosí speravano). Avevo riflettuto in fretta, e siccome la mia coscienza mi aveva convinto della mia mancanza di comprensione e della mia indegnità, decisi di rimanere nella sala con altri e di contentarmi del posto che avevo ricevuto piuttosto che proseguire con pericolo. Dopo che gli altri se ne furono andati un po’ per volta alle loro camere (ognuno nella sua, come ho saputo dopo), guidato ciascuno dalla propria luce, rimanemmo in nove, compreso quello che aveva parlato con me a tavola; ma le nostre luci non ci abbandonarono. Dopo un’oretta, uno dei paggi venne portando un rotolo di corda, e ci chiese in tono solenne se eravamo decisi a restare lí; quando demmo la conferma, sospirando, egli ci legò, ognuno in un posto speciale, e sparí con le nostre luci, lasciando noi poveretti nel buio. Allora cominciarono a scorrere le lacrime a molti, ed anche io non potei trattenere le mie. Benché non fosse vietato parlare, l’angoscia e la miseria facevano tacere tutti. La corda era fatta in modo particolare, sicché nessuno poteva romperla né toglierla dai piedi. Mi consolava però sempre il pensiero che molti di coloro che erano andati a dormire avrebbero poi subìto una grande vergogna, mentre noi potevamo espiare la nostra audacia in una sola notte. Finalmente mi addormentai con i miei pensieri tormentosi: benché la maggior parte del nostro gruppo non chiudesse gli occhi, io ero cosí stanco che non potei fare altrimenti. Nel mio sonno ebbi un sogno che forse non ha molto significato, ma che ritengo comunque utile raccontare. Mi parve di essere su un’alta montagna con una grande vallata larga davanti a me. In questa vallata c’era una grande folla di persone, ognuna delle quali aveva un filo attaccato alla testa, col quale era appesa al cielo. Alcuni erano appesi in alto, altri in basso e parecchi stavano quasi sulla terra. Ma c’era un vecchio che volava nell’aria portando a mano una forbice, con la quale tagliava ognì tanto il filo a qualcuno. Quelli che erano vicini al suolo erano piú rapidamente a posto e cadevano senza rumore, ma quando toccava ad uno in alto, cadeva in modo da far tremare la terra. Alcuni avevano la fortuna di sentir scendere al suolo il loro filo, in modo che erano già sulla terra prima che questo fosse tagliato. Un simile capitombolare mi divertiva molto, e mi piaceva fino in fondo al cuore quando uno che si era alzato al di sopra delle sue capacità cadeva giú con tanta vergogna, e magari trascinava con sé alcuni di coloro che erano vicini. Ero anche felice quando uno che era sempre rimasto vicino a terra poteva venir giú cosí tranquillamente e dignitosamente che neanche i suoi vicini se ne accorgevano. Al colmo della mia felicità venni per caso spinto da uno dei miei compagni di prigionia, in modo che mi svegliai e mi irritai con lui. Poi ricordai il mio sogno, e lo raccontai al mio fratello che era steso accanto a me dall’altro lato. Gli piacque, e sperò che fosse il presagio di un aiuto. Passammo il resto della notte in questa conversazione ed aspettammo il giorno con grande desiderio. TERZO GIORNO Allo spuntar del giorno, appena il Sole brillante si fu alzato sopra le montagne per riprendere il suo posto, i miei bravi guerrieri cominciarono ad alzarsi dal letto ed a prepararsi gradualmente per la prova. Cosí entrarono uno dopo l’altro nella sala, ci salutarono e chiesero se avevamo dormito bene durante la notte. Vedendo i nostri legami, c’erano molti che si beffarono di noi, per esserci mostrati tanto scoraggiati, e per non aver puntato tutto sulla fortuna come loro; ma c’erano parecchi il cui cuore non smise di battere, i quali non alzarono tanto la voce. Ci scusammo per la nostra stupidità e esprimemmo la speranza di poter presto partire liberi e prendere questa beffa come lezione per il futuro, ma aggiungendo che loro non se ne sarebbero comunque andati liberi ancora, e che avevano forse il piú grande pericolo davanti a loro. Finalmente, quando tutti si furono radunati, si incominciò a suonare le trombe, come prima, e i tamburi di guerra, e noi pensammo che si sarebbe presentato senz’altro lo sposo; però ci sbagliammo. Era ancora una volta la Vergine del giorno prima, vestita interamente di velluto rosso, e cinta di un nastro bianco. Una verde corona di lauro adornava mirabilmente il suo capo. Il suo seguito era formato non piú da luci ma da circa duecento uomini con corazze, tutti vestiti di rosso e bianco come lei. Levatasi dal suo seggio, avanzò immediatamente verso di noi, e dopo averci salutati, ci disse brevemente: “Il severo signore è soddisfatto nel constatare che alcuni di voi si sono resi conto della loro miseria, cosí ne sarete compensati”. E quando mi ebbe riconosciuto dal mio abito, rise e disse: “Anche tu ti sei sottomesso al giogo? Ed io che credevo che ti fossi tanto ben preparato!”. Con queste parole, mi fece venire le lacrime agli occhi. Ci fece quindi liberare e riunire a due a due, e ci fece stare in un posto dove potessimo vedere bene la Bilancia; poi aggiunse: “Potrebbe andare meglio per loro che per molti degli audaci che rimangono qui liberi”. Nel frattempo, la Bilancia tutta d’oro fu sospesa al centro della sala e una piccola tavola fu coperta con del velluto rosso e furono posti sopra di essa sette pesi: il primo era abbastanza grosso e sopra a questo furono posti altri quattro piccoli, infine, a parte, altri due grossi. E relativamente al loro volume, questi pesi erano talmente pesanti come nessuno potrebbe crederlo o comprendere. La Vergine divise gli armati, di cui ognuno portava una corda al lato della sua spada, in sette gruppi, secondo il numero dei pesi, ed assegnò uno di ogni gruppo al suo peso; poi risalí sul suo trono sopraelevato. Subito dopo aver fatto un inchino, cominciò a parlare con voce forte: “Chi ascende le scale della Pittura e senza saper nulla di come si dipinge ne parla con grande sicumera viene irriso da tutti. Chi si addentra nell’ordine dell’Arte senza esservi stato eletto e pratica l’Arte con grande sfoggio, anche questi viene irriso da molti. Chi si presenta alle Nozze senza esservi stato invitato, e vi arriva tuttavia con grande sfoggio viene anch’egli irriso da tutti. Chi si inoltra comunque su questa strada avrà un peso che non potrà sopportare e subito verrà trascinato in basso per essere irriso da tutti”. Appena la Vergine smise di parlare, un paggio ordinò ad ognuno di prendere posto a seconda del suo rango e di salire (sul piatto della Bilancia) uno dopo l’altro. Al che, uno degli Imperatori non esitò e dopo aver fatto un inchino alla Vergine, montò col suo abito lussuoso. Poi ogni capogruppo depose il peso (nell’altro piatto) e a questi pesi, l’Imperatore resistette con grande meraviglia di tutti. Ma l’ultimo peso fu troppo pesante per lui, e lo sollevò, cosa che l’afflisse al punto che mi parve che la Vergine stessa ne avesse pietà, e fece anche segno ai suoi di tacere. Poi il buon Imperatore fu legato e consegnato al sesto gruppo. Dopo di lui si fece avanti un Imperatore che salí con fierezza sulla bilancia; e poiché aveva un grosso e spesso libro sotto il vestito, pensava che non gli sarebbe mancato il peso. Quando riuscí a mala pena a sopportare il terzo peso e fu gettato in aria senza misericordia dal seguente, lasciando cadere nello spavento anche il suo libro, tutti i soldati cominciarono a ridere ed egli fu legato e consegnato al terzo gruppo. Lo stesso successe a molti altri Imperatori, che vennero derisi e legati. Dopo questi avanzò un uomo basso, anche lui Imperatore, con una piccola barba castana crespa, e, dopo l’inchino formale, si mise anche lui sulla Bilancia. Egli resistette sino alla fine, e cosí fermamente che a mio giudizio avrebbe resistito ancora ad altri pesi, se ce ne fossero stati. La Vergine si alzò subito, s’inchinò davanti a lui e lo fece vestire con un abito di velluto rosso. Infine gli presentò anche delle corone di lauro, che aveva sul suo seggio, e gli disse di sedersi sui gradini del seggio. Sarebbe troppo lungo raccontare cosa successe a tutti gli altri Imperatori, Re e Signori, ma non devo omettere di comunicare che ben pochi di questi capi resistettero, benché molte virtú nobili fossero trovate in loro, tutto al contrario delle mie aspettative. L’uno poteva sopportare un peso, l’altro un altro. Molti ne sostennero due, tre, quattro o cinque, ma pochi arrivarono alla vera perfezione. Chi venne trovato manchevole, fu assai deriso dai gruppi. La prova dei nobili e dei dotti essendo finita, ed essendo stati trovati fra loro uno, talvolta due giusti, e spesso nessuno, fu finalmente la volta dei monsignori ingannatori, degli adulatori, dei fabbricanti della panacea universale. Furono posti sulla Bilancia con tali dileggi che, nonostante il mio dolore, quasi mi scoppiò la pancia dal ridere, e cosí pure i prigionieri non potevano trattenersi dalle risa. Ad essi per la maggior parte non fu neppure accordato un giudizio severo, ma furono cacciati dalla Bilancia a colpi di frusta e di bastone, e condotti al loro gruppo insieme con gli altri prigionieri. Cosí pochi ne rimasero da un gruppo tanto grande che io mi vergogno di rivelarne il numero. Fra gli eletti c’erano anche persone di alto rango, e le une come le altre furono onorate con un vestito di velluto e con un ramo di lauro. Quando poi la prova fu completamente finita e nessuno altro stava ai lati oltre a noi poveri cani incatenati a due a due, un capitano si avanzò e disse: “Signora, se non dispiace a Sua Grazia, desideriamo pesare questa gente che ha riconosciuto la propria mancanza di comprensione; e ciò senza rischio per loro, ma per nostro piacere soltanto; forse esiste qualcosa di buono anche tra loro”. Dapprima n’ebbi grande pena, poi, nella mia afflizione, ebbi almeno la consolazione di pensare che non avrei dovuto subire tanta vergogna o essere cacciato dalla Bilancia a colpi di frusta. Non dubitavo, infatti, che molti dei prigionieri avrebbero preferito aver passato dieci notti nella sala con noi. Poiché la Vergine diede il suo consenso, fummo liberati e posti su uno dopo l’altro. Benché i piú fallissero, non furono derisi né frustati, ma messi di lato in pace. Il mio compagno fu il quinto, e resistette cosí bene che molti ed in particolare il capitano che aveva supplicato per noi, lo esaltarono e gli fu reso grande onore dalla Vergine, secondo l’usanza. Dopo di lui, altri due volarono ancora una volta in aria. Io ero l’ottavo. Quando, tutto tremante, salii sulla Bilancia, il mio compagno che era già seduto lí nel suo velluto mi guardò amichevolmente e la Vergine stessa sorrise un po’. Io resistetti a tutti i pesi: la Vergine diede l’ordine di impiegare la forza per sollevarmi e tre uomini fecero forza ancora sull’altra parte della Bilancia; ma invano. Subito uno dei paggi si alzò e gridò con voce tonante: “E’ Lui!”. E un altro aggiunse: “Che goda dunque della sua libertà!”. La Vergine annuí, e dopo che fui ricevuto con le dovute cerimonie, mi si autorizzò a liberare uno dei prigionieri a mia scelta. Non dovetti riflettere molto per scegliere il primo Imperatore, che mi faceva pena da tanto tempo, il quale fu liberato e messo fra noi con tutti gli onori. Quando anche l’ultimo fu messo sulla Bilancia, per il quale però i pesi furono troppo pesanti, la Vergine si accorse delle rose rosse che avevo staccato dal mio cappello e che tenevo in mano, e le chiese graziosamente per mezzo del suo paggio e io gliele diedi volentieri. Cosí questo primo atto finí alle dieci della mattina; dopodiché si cominciò ancora una volta a suonare le trombe, che erano sempre per noi invisibili. Nel frattempo i gruppi con i loro prigionieri dovettero andarsene, in attesa di giudizio. Il consiglio fu formato dai cinque capitani e da noi, e fu stabilito e richiesto alla Vergine, nella sua qualità di presidentessa, che ognuno volesse dare la sua opinione su come avremmo dovuto agire nei confronti dei prigionieri. La prima opinione era che avrebbero dovuto tutti essere condannati a morte, l’uno piú duramente dell’altro, poiché avevano avuto l’ardire di presentarsi malgrado le condizioni chiaramente richieste. Altri volevano tenerli prigionieri. Ma queste proposte non piacevano né a me né alla presidentessa. Alfine, la cosa fu decisa dall’Imperatore che avevo liberato, da un principe, dal mio compagno e da me: i primi, Signori di alto rango, sarebbero stati condotti fuori del castello con discrezione; altri avrebbero potuto essere congedati con piú disprezzo; i seguenti si sarebbero potuti spogliare e mettere fuori nudi; i quarti sarebbero stati frustrati dalle verghe e cacciati dai cani; quelli che ieri avevano rinunciato di loro volontà avrebbero avuto il permesso di andarsene senza dover nulla scontare. Infine, gli audaci e quelli che si erano comportati tanto vergognosamente al pasto del giorno precedente, sarebbero stati puniti con la tortura o la morte, a seconda della gravità del loro comportamento. Questa opinione piacque alla Vergine e fu accettata definitivamente: si accordò un pasto ai prigionieri, cosa che fu subito loro annunciata. Il giudizio fu rimandato alle dodici del pomeriggio. Qui il consiglio finí. La Vergine si ritirò con i suoi nel suo luogo abituale; a noi fu assegnata la tavola piú alta della sala con la richiesta che ci accontentassimo di questo finché l’affare non fosse completamente finito: poi saremmo stati subito condotti dalle Loro Altezze gli sposi; ragion per cui vedevamo volentieri passare il tempo. Nel frattempo i prigionieri furono ricondotti nella sala e ognuno fu messo al tavolo a seconda del suo stato, e ricevette la raccomandazione di comportarsi piú decentemente del giorno prima; ma questa esortazione era superflua perché avevano perduto la loro arroganza. E posso affermare, non per adulazione ma per amore della verità, che in genere le persone di rango elevato sapevano rassegnarsi meglio a questo scacco imprevisto perché il loro trattamento era abbastanza duro ma giusto. Non potevano però vedere i servitori che invece a noi erano visibili, cosa di cui ero molto contento. Ma sebbene la fortuna ci avesse favoriti, non ci consideravamo tuttavia superiori agli altri, ma parlavamo con loro e li esortavamo a farsi animo dicendo che non sarebbe andato loro troppo male. Essi avrebbero voluto conoscere la sentenza da noi, ma eravamo tenuti al silenzio in modo che nessuno di noi poteva informarli. Tuttavia facevamo del nostro meglio per consolarli e bevemmo con loro nella speranza che il vino li rendesse piú allegri. Il nostro tavolo era coperto di velluto rosso e le coppe erano d’oro e d’argento; cosa che gli altri vedevano con grande meraviglia e grande pena. Prima che noi avessimo preso posto a tavola, entrarono i due paggi e onorarono ciascuno da parte dello sposo con l’Ordine del Toson d’Oro, che portava l’immagine di un leone volante, pregandoci di ornarcene a tavola. Ci esortarono di mantenere nel dovuto modo la reputazione e la gloria dell’Ordine (che Sua Maestà ci mandava adesso e che avrebbe confermato con la dovuta solennità), cosa che noi accettammo con il piú grande rispetto, impegnandoci ad eseguire fedelmente tutto quello che piacesse a Sua Maestà di ordinarci. Inoltre, il nobile paggio aveva una lista delle nostre posizioni, e io non cercherei di nascondere la mia se non temessi di essere tacciato di orgoglio, vizio che non può tuttavia superare il quarto peso. Poiché noi eravamo trattati magnificamente chiedemmo ad uno dei paggi se ci era permesso di mandare da mangiare discretamente ai nostri amici e conoscenti, e poiché non aveva niente in contrario ognuno fece portare abbondantemente da mangiare ai suoi conoscenti per mezzo dei servitori, sempre invisibili a loro. Siccome loro non sapevano da dove veniva volli io stesso portare ad uno qualcosa, ma appena mi alzai uno dei servitori mi si avvicinò dicendo che voleva avvertirmi amichevolmente che se uno dei paggi mi avesse visto, il Re ne sarebbe stato informato, cosa che mi avrebbe danneggiato; ma siccome nessuno oltre a lui mi aveva visto, non mi avrebbe tradito. Tuttavia nel futuro avrei dovuto tener piú conto del mio Ordine. Con queste parole il servitore mi spaventò talmente che quasi non mi mossi piú dalla sedia per molto tempo. Lo ringraziai per il benevolo avvertimento il meglio che potei, nell’ansia e l’angoscia del momento. Subito dopo cominciarono a suonare le trombe alle quali eravamo già abituati perché sapevamo bene che era la Vergine, e perciò ci preparammo a riceverla. Essa apparve sul suo trono con il consueto cerimoniale, preceduta da due paggi che portavano il primo una coppa d’oro e l’altro una pergamena. Dopo essersi levata con grazia dal trono prese la coppa dal paggio e ce la consegnò nel nome del Re, dicendo che era stata portata da parte di Sua Maestà e che noi avremmo dovuto farla circolare in suo onore. Sul coperchio della coppa era rappresentata in oro la Fortuna, eseguita con arte perfetta; essa teneva in mano un piccolo vessillo rosso spiegato. Io bevvi un po’ tristemente perché la perfidia della Fortuna mi era ormai abbastanza conosciuta. La Vergine era decorata con il Toson d’Oro e il Leone: io presumevo dunque che doveva essere la Presidentessa dell’Ordine, e perciò le chiesi il nome dell’Ordine stesso. Lei rispose che non era ancora tempo di svelarlo, finché non fosse eseguita la sentenza nei confronti dei prigionieri, i quali avevano ancora gli occhi bendati. E quello che era successo a noi sarebbe stato soltanto un affronto e uno scandalo per loro, sebbene fosse poco in confronto con l’onore che noi dovevamo aspettarci. Dopo, ricevette la pergamena divisa in due parti dalle mani del secondo paggio, e lesse pressappoco quanto segue al primo gruppo: “Dovete riconoscere che avete creduto troppo facilmente a dei libri falsi e menzogneri; che vi siete creduti troppo meritevoli e allora siete arrivati in questo castello, dove però non siete stati mai chiamati. Anche se la maggior parte di voi si presentò per divertirsi e per poi vivere con maggior pompa e splendore, vi siete comunque incitati l’uno con l’altro e siete finiti in tale derisione e vergogna che avete meritato di soffrire una punizione adatta per tutto questo”. Ed essi lo confessarono con umiltà e le diedero la mano. Poi parlò severamente agli altri, pressappoco come segue: “Voi avete ben saputo ed eravate convinti nella vostra coscienza di avere scritto libri falsi e menzogneri, di aver preso in giro ed ingannato il vostro prossimo e cosí di aver abbassato l’onore regale agli occhi di tutti. Non ignoravate di quali figure empie ed ingannatrici avete fatto uso. E non avete risparmiato neppure la Trinità Divina per ingannare tutto il mondo. Ma ora le pratiche da voi impiegate per intrappolare i veri invitati e per sostituire loro degli insensati, sono scoperte. E tutti sanno che vi siete compiaciuti nella prostituzione, nell’adulterio e nell’ubriachezza e negli altri vizi che sono contrari all’ordine pubblico di questo regno. Insomma, sapevate di aver abbassato la Maestà Regale anche agli occhi della gente comune, perciò dovete riconoscere che siete dei notori e provati ingannatori, adulatori e scellerati che meritano di essere divisi dagli uomini onesti e di essere puniti severamente”. I nostri bravi artisti non erano molto d’accordo con tutto questo; poiché però non solo la Vergine li minacciava di morte, ma anche quelli dell’altro gruppo li accusavano violentemente e si lamentavano tutti insieme di essere stati condotti nell’oscurità da loro, riconobbero le accuse con grande pena per evitare dei mali maggiori; tuttavia chiesero che, per quanto era successo, non venissero trattati con troppa severità, poiché Signori che avevano voluto entrare nel castello avevano promesso loro molto denaro per questo e quindi ognuno si era fatto furbo per ricavarne qualcosa e cosí erano arrivati al punto che era adesso evidente. Ma per il fatto che non erano riusciti, non avevano demeritato piú che i Signori. Come tali i Signori avrebbero dovuto comprendere che uno avrebbe potuto entrare lí sicuramente se non avesse scalato le mura con loro con tanto pericolo per un guadagno da poco. Inoltre, i loro libri erano cosí venduti che in pratica non si riusciva a trovare in commercio altro che prontuari di inganni. Speravano e chiedevano insistentemente che, se si voleva dare un giudizio equo, cosa che era giusta per loro come per i Signori, non dovevano ricevere un cattivo trattamento. Con queste parole, e altre simili, cercavano di scusarsi. Fu loro data la risposta seguente: Sua Maestà Reale ha stabilito di punire tutti: ma gli uni più duramente che gli altri; le ragioni che invocavano erano in effetti in parte vere: e perciò niente sarebbe stato risparmiato ai Signori. Ma quelli che avevano spontaneamente proposto i loro servigi, e quelli che avevano ingannato gli ignoranti contro la loro volontà, dovevano prepararsi a morire. E la stessa sorte sarebbe stata riservata a quelli che avevano leso la Maestà Reale con falsi libri, come loro stessi potevano convincersi ripensando alle loro proprie opere e scritti. Allora ci fu da parte di molti un lamentarsi, un piangere, un supplicare, un pregare e un prosternarsi assai penosi, che però rimasero senza effetto. Io mi chiedevo con meraviglia come la Vergine poteva rimanere cosí ferma, poiché la loro miseria ci ispirava pena infinita e tormento, e ci faceva piangere e provare commiserazione. Poi ella mandò il suo paggio a cercare tutti gli armati che si erano schierati vicino alla Bilancia. Si ordinò loro di prendere ciascuno il suo prigioniero e di condurli tutti in fila nel grande giardino, ogni armato con un prigioniero. Io mi meravigliavo per il modo in cui ognuno riconosceva tanto abilmente il proprio. Poi i miei compagni della notte furono autorizzati ad uscire liberamente nel giardino, per assistere all’esecuzione della sentenza. Appena tutti furono usciti, la Vergine scese dal suo trono e ci invitò a sederci sui gradini e assistere al giudizio. Noi obbedimmo senza indugio, abbandonando tutto sulla tavola, eccetto la coppa che la Vergine ordinò ad un paggio di conservare, ed uscimmo fuori con i nostri abiti splendenti sul trono che avanzava da solo cosí dolcemente che ci sembrava di librarci nell’aria; arrivammo in tal modo nel giardino e ci alzammo tutti. Il giardino non era molto decorato, ma a me piaceva il modo in cui erano disposti gli alberi; inoltre c’era una fontana deliziosa decorata di meravigliose figurazioni, di iscrizioni e di segni strani, di cui parlerò nel prossimo libro, a Dio piacendo. Era stato elevato nel giardino un anfiteatro in legno con tende dipinte intorno ad esso. C’erano quattro ripiani l’uno sopra l’altro; il primo era il piú splendido, ed era coperto da una tenda di taffetà bianco in modo che non potevamo vedere in quel momento chi c’era dietro. Il secondo era vuoto e scoperto, e gli altri due erano ancora una volta coperti di questa pesante seta, rossa e blu. Quando fummo vicini a questo edificio la Vergine s’inchinò profondamente, cosa che ci impressionò molto, perché questo significava chiaramente che il Re e la Regina non erano troppo lontani. Quando avemmo fatto la stessa riverenza come dovuto, la Vergine ci condusse attraverso una scala a chiocciola al secondo ripiano, dove essa prese il primo posto e gli altri conservarono il loro ordine. Se non temessi le cattive lingue, potrei raccontare adesso come si comportò nei miei confronti l’Imperatore che avevo liberato, tanto in quel momento come prima a tavola; perché si rendeva facilmente conto in che pena sarebbe stato aspettando il giudizio in derisione, mentre ora, grazie a me, era pervenuto a questa dignità. Nel frattempo apparve la Vergine che mi aveva portato l’invito, e che non avevo più vista dopo di allora; diede un segnale di tromba e aprí la seduta con voce squillante: “Sua Maestà Reale, il mio signore altissimo, avrebbe desiderato di tutto cuore che i qui presenti fossero apparsi soltanto se forniti delle qualità da lui richieste per adornare in grande numero, in Suo onore, la sua festa nuziale. Ma poiché Dio onnipotente ha disposto altrimenti, Sua Maestà non doveva protestare, ma attenersi agli usi antichi e lodevoli di questo reame, benché questo non gli fosse gradito. Tuttavia affinché la clemenza della Sua Maestà venisse celebrata nel mondo intero, egli, con l’aiuto dei consiglieri e dei rappresentanti del regno, ha stabilito di mitigare sensibilmente la sentenza abituale: non solo è sua volontà risparmiare la vita ai Signori e ai governanti, ma anche lasciarli andare liberi. Sua Maestà vi comunica dunque la sua preghiera amichevole di rassegnarvi senza alcuna collera a non poter assistere alla festa in suo onore, di riflettere che Dio onnipotente vi ha già concesso una dignità, che tuttavia non siete stati capaci di portare con serenità e sottomissione, e che, d’altronde, l’Onnipotente divide i suoi beni secondo pensieri inconoscibili. Ugualmente, dovete riflettere che la vostra reputazione non sarà diminuita dal fatto di essere esclusi dal nostro Ordine, perché non è dato a tutti di compiere tutte le cose. Invece, i cortigiani perversi che vi hanno ingannati non rimarranno impuniti. Inoltre, la Sua Maestà vi fa dono di un Catalogo delle eresie e di un Index expurgatorium, affinché d’ora in poi voi stessi possiate distinguere con maggiore comprensione il bene dal male. Infatti, Sua Maestà intende riesaminare tra poco le vostre biblioteche e sacrificare a Vulcano gli scritti ingannatori, desiderando che vi poniate al servizio della vostra Santa Vergine e di Dio. Chiede perciò a ciascuno di voi di agire con i suoi soggetti in modo da reprimere tutto il male e l’impurità. Egli vi esorta, inoltre, a non chiedere mai sconsideratamente di tornare perché non varrebbe piú come scusante l’essere stati ingannati con conseguente rischio di essere derisi e disprezzati da tutti. Infine, siccome ogni governatore può chiedere qualcosa ai suoi soggetti, la Sua Maestà spera che nessuno di voi si rifiuterà di pagare la propria libertà con una catena o qualunque altra cosa abbia con sé, e che ciascuno voglia partire da noi in amicizia e tornare ai suoi col nostro appoggio. Sua Maestà non desidera lasciar partire tanto facilmente gli altri, che non hanno resistito al primo, terzo e quarto peso; ma poiché la sua clemenza venga sentita anche da loro, la loro punizione sarà di essere svestiti interamente e poi rinviati. “Quelli che sono risultati piú leggeri dei pesi due e cinque, oltre a venir spogliati saranno anche segnati con due o più marchi, a seconda del peso dimostrato. “Quelli che sono stati sollevati dai pesi sesto e settimo e non dagli altri, verranno trattati con meno rigore, e cosí via: è stata stabilita una punizione precisa per ogni combinazione, che sarebbe troppo lungo raccontare qui. “Quelli che ieri si sono messi in disparte volontariamente, possono andarsene liberi senza nessuna punizione. “Infine quelli che si sono dimostrati ingannatori, non avendo controbilanciato alcun peso, saranno puniti con la morte mediante l’impiego, a seconda dei loro crimini, della spada, la corda, l’acqua o le verghe; e l’esecuzione avrà luogo irrevocabilmente per l’esempio degli altri”. Con questo la prima Vergine spezzò il suo bastone; poi la seconda Vergine, che aveva letto il giudizio, suonò la sua tromba e si avvicinò con grande riverenza a quelli che erano dietro la tenda. Non posso omettere qui di rivelare al lettore qualcosa circa il numero dei prigionieri: quelli che avevano sostenuto un peso erano sette, quelli che ne avevano sostenuti due, ventuno; per tre ce n’erano trentacinque; per quattro, trentacinque; per cinque, ventuno; per sei, sette. Per sette pesi non ce n’era che uno, il quale era stato sollevato a stento, ed era l’Imperatore che avevo liberato; quelli che erano stati sollevati facilmente erano un grande numero. Quelli che avevano lasciato cadere tutti i pesi a terra erano meno numerosi. E cosí ho contato e notato con cura sulla mia tavoletta i gruppi che erano divisi davanti a noi. Ed è da meravigliarsi che fra tutti quelli che avevano pesato qualcosa, nessuno era di un peso uguale all’altro; infatti, benchè ve ne fossero trentacinque che avevano resistito a tre pesi, uno aveva resistito al primo, secondo e terzo, un altro al terzo, quarto e quinto, un altro ancora al quinto, sesto e settimo e cosí via, di modo che era una meraviglia che fra centoventisei che avevano pesato qualcosa, nessuno era uguale all’altro, e vorrei avere la possibilità di nominare tutti con i loro pesi se non mi fosse ancor oggi vietato; ma spero che questo sarà rivelato con la sua interpretazione nell’avvenire. Dopo la lettura di questa sentenza i Signori della prima categoria erano molto soddisfatti, perché, dopo questa prova rigorosa, non avevano osato sperare in una punizione cosí leggera. Perciò dettero ancora piú di quello che si domandava loro e si riscattarono con dei gioielli, dell’oro, dell’argento, infine tutto quello che avevano con sé e si congedarono con una riverenza. Sebbene si fosse proibito ai servitori reali di prendersi gioco di loro durante la partenza, parecchi non poterono trattenere il riso; e in realtà era molto divertente vedere con quanta fretta essi si allontanavano senza guardarsi indietro. Alcuni chiesero che si facesse pervenire loro il Catalogo promesso, affinché potessero regolare la questione dei libri secondo il desiderio di Sua Maestà Reale, cosa che fu di nuovo promessa loro. Sotto il portone si porse a ciascuno una coppa colma della bevanda dell’oblio, affinché potessero dimenticarsi di quegli incidenti. Essi furono seguiti da coloro che si erano ritirati prima della prova; li si lasciò passare a causa della loro franchezza ed onestà, ma si ordinò loro di non presentarsi mai più in tale condizione. Tuttavia, quando avessero raggiunto una comprensione piú profonda essi sarebbero stati come gli altri dei convitati benvenuti. Durante questo tempo altri venivano svestiti, e anche qui si facevano delle distinzioni secondo i crimini di ciascuno: gli uni venivano rinviati tutti nudi, senza nessun’altra punizione; altri furono mandati fuori al suono di scampanellate; altri ancora furono cacciati a colpi di frusta. Insomma, le loro punizioni furono troppo varie perché io possa parlare di tutte. Fu infine la volta degli ultimi; la loro punizione richiese piú tempo, perché prima che gli uni fossero impiccati o decapitati, annegati o giustiziati in qualche altro modo, ci volle un bel po’. Durante queste esecuzioni non potei trattenere le lacrime, non tanto per pietà – in tutta giustizia essi avevano meritato la punizione per i loro crimini – ma in vista della cecità umana che ci porta senza posa a preoccuparci innanzitutto di quello che in noi è stato marchiato dal peccato originale. E ben presto il giardino che prima rigurgitava di gente si vuotò al punto che non restarono altri che i soldati. Dopo questi avvenimenti si fece un silenzio che durò cinque minuti. Allora un bel liocorno, bianco come la neve, con intorno al collo una collana d’oro sulla quale erano incise delle lettere, si avvicinò alla fontana, e, piegando le gambe anteriori, si inginocchiò come se volesse onorare il leone che si teneva in piedi sulla fontana stessa. Questo leone, che in ragione della sua immobilità completa mi era sembrato di pietra o di bronzo, prese subito una spada nuda che teneva sotto i suoi artigli e la spezzò a metà; mi sembrò che i due frammenti cadessero nella fontana. Poi non cessò di ruggire, finché una colomba bianca gli portò un ramoscello d’olivo che teneva nel suo becco, e che il leone inghiottí subito, cosa che gli rese di nuovo la calma. Allora il liocorno ritornò gioioso al suo posto. Un istante dopo, la nostra Vergine ci fece discendere dal giardino attraverso la scala a chiocciola e noi ci inchinammo ancora una volta davanti alla tenda; poi ci ordinò di lavarci coll’acqua della fontana sulle mani e sulla testa e di rientrare nelle nostre file dopo questa abluzione, finché il Re si fosse ritirato nei suoi appartamenti attraverso un corridoio segreto. Ci si riportò allora dal giardino alle nostre camere con grande solennità e al suono di una musica strana, mentre noi ci intrattenevamo in lodevoli conversazioni. E questo avvenne alle quattro del pomeriggio. Per aiutarci a passare il tempo, la Vergine diede ad ognuno di noi un paggio nobile, che non solo era vestito con magnificenza, ma era anche meravigliosamente istruito e perciò poteva discorrere con tanta arte di tutte le cose, che noi ci vergognavamo di noi stessi. Si era ordinato loro di farci visitare il Castello (ma solo certe parti) e per quanto possibile di distrarci tenendo conto dei nostri desideri. Nel frattempo, la Vergine si congedò promettendoci di riapparire per il pasto della sera; si sarebbe celebrata, subito dopo, la cerimonia della sospensione dei pesi; in seguito ci pregava di pazientare fino all’indomani, perché soltanto all’indomani saremmo stati presentati al Re. Dopo che ci ebbe lasciati, ciascuno di noi fece quello che gli piaceva di piú. Un gruppo guardava le belle tavolette che erano state mostrate loro, e pensava al senso dei caratteri meravigliosi; altri si rifocillavano con cibi e bevande. Quanto a me, mi feci condurre in giro per il castello insieme con il mio compagno dal paggio e non rimpiangerò per tutta la mia vita di aver fatto quel giro perché senza parlare delle molte splendide antichità che vidi, mi furono mostrate anche le tombe dei re, dove imparai piú di quanto esiste in tutti i libri mai scritti. Proprio lí si trova la fenice meravigliosa, sulla quale ho scritto un piccolo libro due anni fa. Ho l’intenzione di pubblicare anche dei trattati speciali concepiti secondo lo stesso piano e nello stesso stile (se questo mio racconto porterà frutti) sul leone, l’aquila, il falcone e il grifone. Mi dispiace soltanto che gli altri miei compagni abbiano mancato un tesoro cosí prezioso, e devo pensare che tale è stata la volontà particolare di Dio. La maggior parte delle cose le ho potute gustare per mezzo del mio paggio, perché ogni paggio conduceva ciascuno a seconda del suo Ingegno, e perciò nei posti e ai fini che piacevano a lui. Al mio paggio era accordata la chiave di tutto questo e perciò mi era concessa questa felicità prima di tutti gli altri. Chiamò anche gli altri: ma essi pensavano che le tombe dei re non potevano trovarsi altro che nel cimitero, dove avrebbero avuto tempo di recarsi in seguito, se per caso vi fosse stato qualcosa da vedere. Tuttavia, i monumenti visti, di cui noi due abbiamo preso copia esatta, non resteranno segreti ai miei discepoli piú grati. L’altra cosa che ci fu mostrata era la splendida biblioteca; essa era tale e quale era esistita prima della Riforma. Benché il mio cuore ne gioisca tutte le volte che ci penso, di questa voglio dire meno perché i cataloghi appariranno ben presto. Vicino l’entrata della sala si trova un grosso libro, quale non ne avevo mai visti; questo libro contiene la riproduzione di tutte le figure, sale e porte, nonché delle iscrizioni e degli enigmi riuniti nel castello intero. Benché abbiamo promesso di svelare qualcosa anche di ciò, per il momento aspetto che mondo impari a comprendere meglio. In ogni libro c’è un dipinto dell’autore. Molti di questi, come mi parve di capire, saranno bruciati per farne sparire il ricordo stesso dalla memoria della gente per bene. Quando terminammo la visita, e appena fummo usciti, arrivò correndo un altro paggio e dopo aver detto qualcosa nell’orecchio del nostro ricevette da lui la chiave e scese la scala a chiocciola con essa. Il nostro paggio era impallidito, e poiché noi lo interrogavamo con insistenza, ci fece sapere che la S.M.R. non voleva che nessuno visitasse la biblioteca e le tombe e perciò ci supplicò di conservare il segreto, per salvargli la vita, perché aveva già negato il nostro passaggio in questi luoghi. A tali parole fummo presi da spavento e insieme da gioia; ma il segreto fu conservato; nessuno d’altronde si preoccupò di chiederlo, anche se avevamo passato tre ore in ogni posto, cosa di cui non mi sono pentito. Erano già suonate le sette, tuttavia non eravamo stati ancora chiamati a tavola. Ma la nostra fame era compensata da costanti ristori, e a simile regime io digiunerei volentieri per tutta la vita. Nel frattempo ci furono mostrate le fontane, le miniere e tutti i tipi di studi, di cui non ve n’era uno che da solo non superasse tutta intera la nostra arte. Tutte le stanze erano costruite in un semicerchio, in modo che chi le occupava potesse avere davanti agli occhi il prezioso Orologio costruito su una bella torre regolabile a seconda del corso dei pianeti, e che faceva splendida mostra di sé. Qui ancora una volta potevo capire facilmente quello che manca ai nostri artisti, sebbene non sia mio compito istruirli. Infine, giunsi ad una grande sala (che era già stata mostrata agli altri da tempo) nel centro della quale era un Globo Terrestre il cui diametro misurava trenta piedi, benché quasi la metà, eccetto una piccola parte che era coperta dai gradini, fosse sotto terra. Due uomini potevano far girare facilmente questo globo con tutta la sua attrezzatura, in maniera che non si poteva mai vedere quello che era al di sotto dell’orizzonte. Mi accorsi facilmente che doveva avere un uso speciale, tuttavia non riuscivo a capire a cosa servissero i piccoli anelli d’oro che erano attaccati in molti posti. Questo fece ridere il mio paggio, che mi invitò a guardare attentamente. Insomma, trovai che la mia patria era segnata in oro. Allora il mio compagno cercò anche la sua e la trovò, e poiché questo si verificò anche per altri che erano lí, il paggio ci spiegò che ieri era stato dimostrato alla Sua Maestà Reale che tutti i punti dorati corrispondevano con grande precisione ai paesi che ognuno degli invitati aveva indicato come sua patria, perciò quando aveva visto che io non avevo osato tentare la prova, e che però c’era un anello d’oro sulla mia patria, si era messo d’accordo con il capitano di chiedere che ci si pesasse in ogni caso, perché la patria di uno di noi aveva un buon segno. Egli, essendo il paggio che aveva più potere fra tutti, fu destinato a me per caso ed io ero molto grato per questo; esaminai poi piú diligentemente la mia patria, e trovai che vicino all’anello c’erano anche dei bei raggi. E non dico questo per avere la fama o la gloria. Vidi ancora su questo globo molte cose che non voglio svelare: ognuno deve capire per conto proprio perché ogni Stato non ha il suo Filosofo. In seguito ci condusse all’interno del globo. Questo fu fatto nel modo seguente: sul mare, dove si trovava un grande spazio vuoto, c’era una lastra che portava tre dediche e il nome dell’Autore; questa placca si poteva alzare facilmente e si poteva entrare su un asse flessibile nel centro dove c’era spazio per quattro persone e dove non c’era niente altro che un ripiano rotondo sul quale potevamo sederci, e avremmo potuto contemplare bene le stelle in pieno giorno (adesso era già buio). A mio parere erano diamanti che brillavano tutti nel loro ordine e seguivano il loro corso in modo tanto bello che quasi non volevo uscirne piú, cosa che il mio paggio raccontò poi alla Vergine che mi prese spesso in giro a questo proposito. Era già l’ora di mangiare e mi ero tanto invaghito di stare nel globo che fui quasi l’ultimo ad arrivare a tavola. Perciò non tardai piú, e quando ebbi indossato ancora una volta il mio vestito, che mi ero tolto prima, andai a tavola. I servitori mi dimostrarono tanta reverenza ed onore che, confuso, non potei alzare gli occhi e, senza accorgermi, passai davanti alla Vergine che mi attendeva; cosa della quale lei si accorse subito, mi prese per l’abito e mi condusse a tavola. Descrivere piú ampiamente la musica e gli altri splendori lo ritengo inutile, perché non solo mi mancano le parole ma non saprei aggiungere niente alla lode che ne ho fatto prima. Insomma, tutto era arte e bellezza. Dopo esserci raccontate le nostre attività del pomeriggio (benché della biblioteca e dei monumenti non si parlasse) e già eravamo allegri per il vino, la Vergine cominciò a dire: “Cari signori, ho una grossa lite con mia sorella. Nella nostra stanza abbiamo un’aquila che teniamo con una tale diligenza che ciascuna vuole essere la sua preferita e abbiamo frequenti discussioni a questo proposito. Un giorno decidemmo che sarebbe appartenuta a quella alla quale avesse dimostrato piú affetto. Poi accadde questo. Io portai come d’abitudine un ramoscello di lauro in mano, ma mia sorella non ne aveva alcuno. Quando essa ci vide, portò subito a mia sorella un ramoscello che aveva nel becco e chiese invece il mio che io le diedi. Adesso, ciascuna di noi crede di essere la preferita. Come devo comportarmi?”. Il quesito, presentato con modestia dalla Vergine, piacque a noi tutti e ognuno avrebbe voluto sentire la soluzione. Ma tutti guardavano me e chiedevano che dessi per primo il mio parere, ma io ero cosí confuso che non potevo far altro che proporre un altro al suo posto e parlai come segue: “Signora, sarebbe facile rispondere se non fossi preoccupato di un’altra cosa. Avevo due compagni, e tutti e due mi amavano senza misura. Ora, poiché erano in dubbio circa quale dei due amavo di piú, decisero di correre verso di me senza essere annunciati, e quello che avrei ricevuto per primo sarebbe stato il prescelto. Fecero così, ma uno di loro non riuscí a seguire l’altro, cosí rimase indietro e piangeva, ed io ricevetti l’altro con meraviglia. Quando essi mi svelarono l’affare non seppi decidermi, e allora ho dovuto rimettere la mia decisione, cercando di trovare un buon consiglio”. La Vergine si meravigliò a questo e, compreso bene cosa volessi dire, rispose: “Bene, siamo pari”. Poi domandò agli altri la soluzione, ma io li avevo resi piú pieni di spirito e uno cominciò come segue: “Nella mia città una vergine fu recentemente condannata a morte, ma poiché il giudice ne ebbe pietà, fece proclamare che se ci fosse qualcuno che voleva entrare in lizza per lei (per provare la sua innocenza con un combattimento) gli sarebbe stato permesso. Ora, lei aveva due amanti. Uno si armò subito e si presentò nel campo per aspettare un avversario. Subito dopo l’altro vi penetrò ugualmente, ma poiché era arrivato troppo tardi pensò di combattere comunque e di lasciarsi vincere perché la vergine avesse la vita salva. Alla fine del combattimento, ognuno voleva averla. E ditemi, signori, a chi appartiene?”. La Vergine a questo punto non poté contenersi piú e disse: “Io pensavo di imparare molto, ma ecco che sono presa nella mia stessa rete, vorrei sentire se qualcun’altro prenderà la parola”. “Certo”, rispose un terzo. “Non è mai stata raccontata avventura piú straordinaria di quella che mi è successa. Nella mia gioventú, amavo una giovane onesta, e perché il mio amore raggiungesse il suo fine dovetti servirmi dell’aiuto di una vecchia che finalmente mi condusse a lei. Successe che i fratelli della vergine ci trovarono nel momento stesso in cui eravamo insieme tutti e tre. Essi si arrabbiarono tanto che volevano uccidermi. Ma poiché li supplicai, dovetti infine giurare di prendere ognuna di esse come mia moglie per un anno. Ditemi signori, dovevo cominciare con la vecchia o con la giovane?”. Questo enigma ci fece ridere molto, e benché molti sussurrassero fra di loro nessuno voleva pronunciarsi. Infine cominciò il quarto: “In una città abitava una donna onesta e nobile, amata da tutti, ma in particolare da un giovane signore; poiché egli diveniva troppo pressante, essa lo informò che se l’avesse condotta in pieno inverno in un bel giardino verde, colmo di rose, gli avrebbe concesso quello che chiedeva. Altrimenti non doveva mai piú ripresentarsi. Il gentiluomo percorse tutto il mondo alla ricerca di un uomo capace di realizzare il desiderio, finché finalmente trovò un vecchio che gli promise di farlo se gli avesse concesso la metà dei suoi beni. Accordatisi su questo punto, il vecchio eseguí. Allora il galante invitò la dama a venire nel suo giardino, e contro la sua speranza, essa lo trovò tutto verdeggiante, gaio e piacevolmente temperato, e si ricordò della sua promessa. Chiese solo di andare un’ultima volta da suo marito al quale si lamentò – della sua disgrazia piangendo e sospirando. Ma poiché egli aveva avuto abbastanza prova della sua onestà, la rimandò dal suo amante che l’aveva guadagnata a un tal prezzo, perché lo accontentasse. L’onestà di questo marito commosse il gentiluomo, che temeva di peccare toccando una donna tanto onesta e cosí la rimandò con onore a suo marito. Quando il vecchio conobbe la probità di tutti e due, risolse di rendere tutti i beni al gentiluomo e se ne andò, malgrado la sua povertà. Ora io non so, cari signori, quale di queste persone abbia dimostrato maggiore onestà”. Questo ci fece tacere tutti. Anche la Vergine non volle rispondere, e chiese se un altro volesse continuare. Il quinto cominciò dunque come segue: “Cari signori, non voglio farla lunga. Chi è più gioioso, quello che contempla l’oggetto che ama, o colui che ci pensa soltanto?”. “Quello che lo contempla”, disse la Vergine. “No”, risposi io, e si accese una discussione, quando il sesto disse: “Cari signori, io devo prendere moglie, e ho di fronte a me una vergine, una donna sposata e una vedova. Aiutatemi a risolvere il mio problema e dopo vi aiuterò a risolvere il vostro”. Il settimo rispose: “Va già bene se uno puo scegliere, ma per me è diverso. Nella mia gioventù amavo dal fondo del mio cuore una vergine bella ed onesta e lei ricambiava il mio amore. Tuttavia, non potevamo unirci onestamente a causa del rifiuto dei suoi parenti. E perciò lei sposò un altro che era ugualmente retto ed onesto e la circondò di rispetto e di amore finché giunse il momento del parto. Ma allora essa si ammalò tanto che tutti pensarono fosse morta, e cosí venne messa nella bara con grandi spese e con grande afflizione. Ora, io pensai che siccome non avevo potuto possedere questo essere nella vita, potevo almeno abbracciarla nella morte e baciarla al mio piacimento. Perciò mi feci accompagnare durante la notte dal mio servitore, che la dissotterrò. Quando ebbi aperto la cassa e l’ebbi presa nelle braccia, mi accorsi che il suo cuore batteva ancora e il movimento aumentava con il calore del mio corpo, finché ebbi la certezza che era ancora viva; la portai allora a casa in segreto e dopo aver scaldato il suo corpo raffreddato, per mezzo di un delizioso bagno di erbe, la affidai a mia madre, finché mise al mondo un bel figlio, che feci curare con tanta coscienza come la madre. Due giorni dopo le raccontai, con sua grande meraviglia, quello che era successo, e la pregai di restare d’ora in poi presso di me come mia sposa. Ella ne fu assai addolorata, dicendo che il suo sposo, che l’aveva sempre amata fedelmente, ne sarebbe stato molto afflitto, ma che a causa degli avvenimenti, l’amore la obbligava sia verso l’uno che l’altro. Dopo esser stato due mesi in viaggio, invitai suo marito e gli domandai quasi incidentalmente, se avrebbe ripreso sua moglie morta se essa fosse ritornata in casa. Egli rispose di sì, piangendo amaramente. Allora gli condussi sua moglie, insieme con il figlio; gli raccontai tutto quello che era successo e lo pregai di ratificare con il suo consenso la mia unione con lei. Dopo lunghe discussioni, dovetti rinunciare a contestare i miei diritti sulla donna, ma continuammo a litigare per il figlio”. Qui la Vergine intervenne con queste parole: “Sono meravigliata che tu abbia voluto raddoppiare l’afflizione di quell’uomo”. “Ma come”, rispose egli, “non ne avevo forse il diritto? ” Questo accese tra di noi una discussione, e la maggior parte riteneva che egli avrebbe fatto bene a tenere il bimbo. “No” disse, “gli ridiedi sia la donna che il figlio. Adesso ditemi, cari signori, cosa fu piú grande, la mia onestà o la gioia del marito?”. Queste parole piacquero talmente alla Vergine che essa fece circolare la coppa in onore dei due. Seguirono poi altri racconti un po’ piú ingarbugliati, che non ricordo tutti; peraltro ne rammento un altro ancora. Uno di noi disse che aveva visto un medico che aveva comperato della legna per scaldarsi con essa tutto l’inverno; ma quando era tornata la primavera aveva rivenduto questa stessa legna, trovando cosí modo di usarla senza pagarla. “Questo è avvenuto per arte”, disse la Vergine; “ma adesso non abbiamo più tempo. In effetti, colui che non sa risolvere tutti gli indovinelli mandi a chiedere le soluzioni a qualcuno per mezzo del suo messaggero. Non credo che glielo si rifiuterà”. Poi si mise a dire le benedizioni dopo il pasto, e ci levammo tutti da tavola, piuttosto soddisfatti e piú contenti che sazi. E augurerei che ogni festino ed ogni banchetto venisse condotto nello stesso modo. Dopo aver camminato su e giú per la stanza, la Vergine chiese se avevamo voglia di iniziare il matrimonio. Uno di noi rispose: “O, certo, Vergine nobile e virtuosa”. Con questo, mandò in segreto un paggio e nel frattempo continuò a conversare con noi. Insomma, era tanto intima con noi che osai chiedere il suo nome. La Vergine sorrise alla arditezza, ma non ne fu seccata: “Il mio nome contiene per numero cinquantacinque, ed ha però soltanto otto lettere; la terza è una terza parte della quinta; se si aggiunge alla sesta, essa forma un numero la cui radice è già piú grande della prima lettera che non la terza stessa, ed è la metà della quarta. La quinta e la settima sono uguali e l’ultima è uguale alla prima, ed esse fanno con la seconda quanto possiede la sesta che non ha tuttavia che quattro in piú di quanto non ne possiede la terza tre volte. E ora, signori, ditemi quale è il mio nome?”. La risposta mi era abbastanza complicata, ma non rinunciai e domandai: “Vergine nobile e virtuosa, potrei ottenere una sola lettera?”. “Va bene” disse, “questo si può fare facilmente”. “Quanti ne ha allora la settima? ” chiesi. “Ne ha quanti sono i signori qui” rispose. Questo mi bastava e trovai facilmente il suo nome. La Vergine si mostrò molto contenta e ci annunciò che molte altre cose ci sarebbero state svelate. Nel frattempo si erano preparate parecchie vergini che entrarono con grande solennità, precedute da due giovani, uno con il viso allegro, gli occhi chiari e di forme armoniose; l’altro aveva l’aspetto irritato e mi accorsi in seguito che bisognava che tutte le sue volontà si realizzassero. Erano seguiti dapprima da quattro vergini. La prima abbassava castamente gli occhi e i suoi gesti denotavano umiltà. La seconda era ugualmente una vergine casta e pudica. La terza ebbe un movimento di spavento entrando nella sala; avevo appreso che non poteva restare lí dove c’è troppa gioia. La quarta ci portò molti mazzolini di fiori come simbolo del suo amore e generosità. Dopo queste quattro ne venivano ancora due vestite piú riccamente, che ci salutarono con gentilezza. Una aveva un vestito blu con stelline d’oro; la seconda era vestita di verde con delle striscie rosse e bianche; ambedue avevano sulla testa dei veli fluttuanti che stavano loro molto bene. Infine, venne tutta sola la settima vergine, che aveva una corona sulla testa e che guardava piuttosto verso il cielo che verso la terra. Noi credemmo tutti che fosse la sposa, ma questo era lontano dalla verità; tuttavia essa era piú nobile della sposa per gli onori, la ricchezza, il rango. Fu essa che d’allora in poi regolò il corso delle nozze. Noi imitammo la nostra Vergine, malgrado che si mostrasse molto umile e devota. Tese la mano ad ognuno e ci disse di non meravigliarci di questo favore, perché non era che uno dei suoi doni piú piccoli. Dovevamo innalzare gli occhi verso il nostro Creatore, e riconoscere la sua onnipotenza e perseverare nella via in cui ci eravamo impegnati usando tale grazia per la gloria di Dio e il bene dell’Umanità. Insomma, le sue parole erano del tutto diverse da quelle della nostra Vergine, che era un po’ piú mondana; mi penetrarono fino al midollo. “E tu”, disse, parlando rivolta a me, “hai ricevuto piú che gli altri; cerca allora anche di dare di piú”. Questo discorso mi sorprese molto, perché vedendo le vergini e i musicanti pensammo che dovevamo ballare, ma il momento non era ancora arrivato. Ora, tutti i pesi di cui avevo parlato prima, erano ancora lí, perciò la Regina (o non so chi) ordinò ad ogni vergine di prenderne uno. Alla nostra Vergine però diede il suo, che era l’ultimo e il piú grosso, e ci ordinò di seguirla. Qui la nostra gloria si trovò un po’ diminuita; perché io mi accorsi bene che la nostra Vergine aveva troppa gentilezza nei nostri confronti e che non eravamo stimati cosí tanto quanto cominciavamo quasi ad immaginarlo. Noi seguivamo dunque in ordine e fummo condotti nella prima stanza dove la nostra Vergine appese per prima il peso della Regina, e fu cantato un bel cantico. In questa sala non c’era di prezioso che alcuni bei libri di preghiera che sono essenziali in queste occasioni. In mezzo alla sala si trovava un inginocchiatoio e la Regina vi si inginocchiò e noi ci prosternammo tutti intorno a lei e ripetemmo la preghiera che la Vergine leggeva in uno dei libri per chiedere che le nozze si compissero alla gloria di Dio e per il nostro bene. Dopo, entrammo in un’altra stanza dove la prima Vergine appese il suo peso e cosí di seguito finché tutte le cerimonie furono compiute. Allora la Regina tese di nuovo la mano e ciascuno e partí con le sue Vergini. La nostra presidentessa rimase ancora un istante con noi, ma siccome erano già le due del mattino, non voleva intrattenerci piú a lungo. Mi sembrò che la nostra compagnia le piacesse. Ci salutò e ci raccomandò di passare la notte in tranquillità e si separò da noi amichevolmente, quasi controvoglia. I nostri paggi avevano già le loro istruzioni e perciò condussero ognuno alla sua camera e, affinché potessimo farci servire in caso di bisogno, il nostro paggio riposava in un secondo letto installato nella stessa camera. Io non so come erano le camere dei miei compagni, ma la mia era ammobiliata regalmente e ornata di tappeti e quadri meravigliosi. Ma piú che altro preferivo la compagnia del mio paggio, che parlava con tanta eccellenza ed era versato in tante arti che mi portò via un’altra ora in modo che non mi addormentai prima delle tre e mezzo. Questa era infatti la prima notte di tranquillità; tuttavia un sogno inopportuno non mi lasciava dormire a mio agio, perché durante tutta la notte mi accanivo su una porta che non potevo aprire, pur riuscendovi finalmente. Queste fantasie disturbarono il mio sonno finché mi svegliai verso l’alba. QUARTO GIORNO Io riposavo ancora nel mio letto, guardando tranquillamente i quadri e le statue mirabili che si trovavano nella camera, quando sentii improvvisamente gli accordi di una musica di cornette e il suono del triangolo; mi resi conto che la processione era già in marcia. Allora il mio paggio balzò dal letto come un folle, somigliando molto più ad un morto che ad un vivo. S’immagini il mio smarrimento quando mi disse che in quel momento stesso i miei compagni venivano presentati al Re. Io non potei che piangere a calde lacrime e maledire la mia pigrizia, mentre mi vestivo in fretta. Il paggio era pronto molto prima di me e uscí dall’appartamento correndo per vedere come stavano le cose. Ritornò ben presto con la gioiosa notizia che niente era perduto, che avevo perso soltanto la colazione, perché non mi si era voluto svegliare a causa della mia età avanzata, ma che era tempo di seguirlo alla fontana dove i miei compagni erano già per la maggior parte riuniti. A questa notizia, ritrovai la calma; terminai in fretta la toilette e seguii il paggio alla fontana. Dopo esserci salutati, la Vergine scherzò sulla mia pigrizia e mi condusse per mano alla fontana. Allora constatai che invece della spada, il leone teneva una grande lastra incisa. Io la esaminai con cura e scoprii che era stata presa tra i monumenti antichi e posta qui per questa circostanza. L’incisione era un po’ cancellata a causa della sua antichità. La riproduco ora esattamente perché ciascuno possa riflettervi: PRINCIPE ERMETE DOPO TUTTO IL DANNO FATTO AL GENERE UMANO PER ORDINE DI DIO CON IL SOCCORSO DELL’ARTE IO SONO DIVENUTO RIMEDIO SALUTARE IO SCORRO QUI. Beva chi può le mie acque: vi si lavi chi vuole: le turbi chi osa: BEVETE FRATELLI, E VIVETE. Questa iscrizione era dunque facile da leggere e da comprendere; così la si era posta qui, perchè fra tutte era la più semplice da decifrare. Dopo esserci lavati a questa fontana, bevemmo in una coppa tutta d’oro. Poi ritornammo con la Vergine nella sala per rivestirci di abiti nuovi. Questi abiti erano fatti interamente in oro, e ricamati di fiori; inoltre ciascuno ricevette un secondo Toson d’Oro guarnito di gioielli, e ognuno di questi aveva una sua virtù operativa particolare. Una pesante medaglia d’oro vi era fissata; su di una faccia si vedevano il Sole e la Luna, l’uno di fronte all’altra. Sul rovescio si leggevano queste parole: “L’irraggiamento della Luna uguaglierà quello del Sole; e l’irraggiare del Sole diventerà sette volte piú splendente”. I nostri vecchi ornamenti furono deposti in alcune cassette e consegnati ad uno dei servitori. Poi la Vergine ci fece uscire in ordine. Davanti alla porta i musicisti vestiti di velluto rosso con i bordi bianchi ci aspettavano già. Si aprì allora una porta che prima avevo sempre vista chiusa – che dava sulla scala del Re. La Vergine ci fece entrare con i musicisti e salire trecentosessantacinque gradini. Lungo questa scala vedemmo preziose opere d’arte; più salivamo e più gli ornamenti diventavano ammirevoli; raggiungemmo infine una sala dipinta. Le sessanta vergini, tutte vestite riccamente, ci attendevano; si inchinarono a noi e ci diedero il loro saluto e noi pure rendemmo il saluto meglio che potemmo; poi si congedarono ì musicanti che dovettero ridiscendere la scala. Allora, al suono di un campanello, una vergine apparve e diede ad ognuno una corona di alloro; ma alla nostra Vergine ne diede un ramo. Poi una tenda si sollevò, e io vidi il Re e la Regina. Quale era lo splendore della Loro Maestà! Se la regina d’ieri non mi avesse gentilmente avvertito, non avrei potuto fare a meno, pieno di entusiasmo, di paragonare al cielo questa gloria indicibile, perché non solo la sala risplendeva d’oro e di pietre preziose, ma il Re e la Regina erano tali che i miei occhi non potevano sostenere il loro splendore. Fino a quel giorno avevo ammirato molte cose, ma qui le meraviglie si superavano l’un l’altra come le stelle del cielo. Ora, la Vergine essendosi avvicinata, ciascuna delle sue compagne prese uno di noi per la mano e ci presentò al Re con una profonda riverenza; poi la Vergine parlò come segue: “In onore delle vostre Maestà Reali, graziosi Re e Regina, i Signori qui presenti hanno affrontato la morte per venire qui. Le Vostre Maestà saranno a buon diritto contente, perchè, per la maggior parte, essi sono qualificati per ingrandire il regno e il dominio delle Vostre Maestà, come Loro potranno assicurarsene se vogliono, mettendo ciascuno alla prova. Io ho voluto dunque presentarli molto rispettosamente alle Vostre Maestà, con l’umile preghiera di essere liberata del mio incarico e di voler bene prendere in considerazione il modo in cui l’ho eseguito, interrogando ciascuno”. Poi ella depose il suo ramo d’alloro. Ora sarebbe stato conveniente che qualcuno di noi avesse detto qualcosa. Ma poiché eravamo tutti troppo emozionati per prendere la parola, il vecchio Atlante finì per farsi avanti a dire a nome del Re: “La Sua Maestà Reale gioisce per il vostro arrivo e vi accorda la sua grazia reale, a tutti come a ciascuno in particolare. Essa è ugualmente molto soddisfatta per il compimento della tua missione, cara Vergine, e come ricompensa ti sarà riservata una onoreficienza reale. Sua Maestà pensa tuttavia che tu dovresti guidarli ancora per oggi, perché non possono che avere grande fiducia in te”. La Vergine riprese dunque umilmente il ramo di lauro, e noi ci ritirammo per la prima volta, accompagnati dalle nostre vergini. La sala all’inizio era rettangolare, cinque volte più larga che lunga, ma alla fine essa prendeva la forma di un grande semicerchio come un portico, con tre superbi troni reali messi ad arco, salvo che quello in mezzo era un po’ sopraelevato. In ogni trono erano sedute due persone. Il primo trono era occupato da un vecchio re con la barba grigia, la cui sposa era invece molto giovane e ammirevolmente bella. Un re nero di mezza età era seduto sul terzo trono; al suo lato si vedeva la madre, vecchia e minuta, non coronata, ma velata. Il trono di mezzo era occupato da due adolescenti; essi erano coronati di alloro e al di sopra era sospeso un grande e prezioso diadema. Essi non erano così belli in questo momento come io avevo immaginato, ma così doveva essere. Molti uomini, dei vegliardi per la maggior parte, avevano preso Posto dietro di loro su di un banco circolare. Ora, cosa sorprendente, nessuno di essi portava la spada né altre armi; inoltre non vidi guardia del corpo. C’erano poi alcune vergini che erano state fra noi il giorno precedente e che si erano poste su un lato del semicerchio. Non posso omettere inoltre che anche il piccolo Cupido vi svolazzava. Volteggiava e girava di preferenza intorno alla grande corona. Talvolta si metteva tra i due amanti, col suo arco, sorridente; talvolta faceva anche il gesto di mirarvi con l’arco; infine questo piccolo dio così malizioso non risparmiava neppure gli uccellini che volavano numerosi nella sala, ma li tormentava tutte le volte che poteva. Divertiva anche le vergini; quando esse potevano prenderlo, egli non se ne liberava che a fatica. Così tutta l’allegria e tutto il piacere venivano da questo bambino. Davanti alla Regina si trovava un altare di piccole dimensioni, ma di una bellezza incomparabile; su questo altare un libro coperto di velluto nero ornato con solo pochi rilievi in oro; a lato una piccola luce in un portalampada di avorio. Questa luce, sebbene piccola, bruciava senza spegnersi mai con una fiamma talmente immobile che non l’avremmo riconosciuta come un fuoco se Cupido di tempo in tempo non vi avesse soffiato sopra. Presso la fiaccola si trovava una sfera celeste che girava intorno al suo asse; poi un piccolo orologio a suoneria vicino ad una minuscola fontana di cristallo, da cui sgorgava senza interrompersi mai un’acqua limpida color del sangue e, infine, un teschio, rifugio di un serpente bianco talmente lungo che, malgrado facesse il giro degli altri oggetti, la sua coda era ancora impigliata in uno degli occhi, mentre la testa rientrava nell’altro. Non usciva dunque mai completamente dal teschio, ma quando Cupido si provava a colpirlo, rientrava con una velocità sorprendente. Oltre a questo piccolo altare, si notavano qua e là nella sala alcune immagini meravigliose, che si muovevano come se fossero vive, con una fantasia talmente stupefacente che mi è impossibile descriverla. Così, al momento in cui uscivamo, si levò nella sala un canto tanto soave che non saprei dire se si elevava dal coro delle vergini che erano rimaste o dalle immagini stesse. Per questa volta eravamo contenti e ce ne andammo con le nostre vergini. I nostri musicisti erano lì e ci condussero giù per la scala a chiocciola e la porta fu chiusa a catenaccio con cura. Dopo essere tornati nella nostra sala, una delle vergini incominciò a dire: “Sorella, sono meravigliata che tu abbia osato stare in compagnia con tante persone”. “Sorella mia”, rispose la nostra Presidentessa, “quello lì mi ha preoccupato più di tutti”, e indicò me. Queste parole mi causarono pena, perché capivo bene che mi prendeva in giro a cagione della mia età. In effetti ero il più vecchio. Però la vergine mi consolò con la promessa che mi avrebbe aiutato a sbarazzarmi di quest’afflizione se mi fossi comportato bene verso di lei. Nel frattempo fu servito il pasto e ognuno era posto al lato di una delle vergini, che sapevano intrattenerci con la loro conversazione leggiadra. Non devo, però, tradire gli argomenti delle loro conversazioni e divertimenti. La maggior parte degli argomenti avevano a che fare con le arti, e da questo mi accorsi che tutti si occupavano d’arte. Io ero preoccupato dal pensiero di diventare giovane e perciò ero un po’ più triste. La Vergine se ne accorse ed esclamò: “Vedo bene che cosa manca a questo giovanotto. Scommetto che sarà più allegro domani se dormo con lui stanotte”. A queste parole tutti incominciarono a ridere, e pur essendo rosso di vergogna, dovetti ridere anch’io della mia sfortuna. Ci fu però uno che volle vendicarmi nei confronti della Vergine, e disse: “Spero che non solo noi, ma tutte le vergini qui riunite, testimonieranno per il nostro fratello che la nostra Presidentessa ha promesso di dormire con lui stanotte”. “Ne sarei contenta”, disse la Vergine, “se non dovessi temere le mie sorelle. Non sarebbe conveniente per me di scegliere, senza la loro approvazione, il migliore e il Più bello”. “Sorella mia”, incominciò subito un’altra, “questo ci fa accorgere che la tua alta funzione non ti ha resa orgogliosa. Perciò, col tuo permesso, noi vorremmo tirare a sorte questi signori, per dividerli fra di noi come compagni di letto, e tu puoi volentieri conservare la tua prerogativa”. Tutti noi considerammo la frase come uno scherzo, e riprendemmo la nostra conversazione. Ma la nostra Vergine non poteva lasciarci tranquilli e ricominciò: “Signori, sarà bene lasciare decidere alla fortuna quali persone dovranno dormire insieme questa notte”. “D’accordo”, dissi; “se dev’essere così, non possiamo respingere una tale offerta”. Siccome si stabilì di decidere la cosa dopo il pasto, non volevamo tardare più a tavola e ci alzammo; ognuno camminava su e giù con la sua vergine. “Ma no”, disse la Vergine. “Non è ancora tempo. Vediamo come ci accoppia la fortuna”. Di conseguenza, lasciammo le nostre compagne. Seguì una discussione sul come affrontare questo problema, ma era tutt’un gioco inventato, falso, perché la Vergine ci propose di porci in cerchio in un ordine qualsiasi; poi lei ci avrebbe contati, e il settimo avrebbe dovuto unirsi al settimo seguente, che fosse vergine o uomo. Noi non ci accorgemmo di nessun’astuzia e la lasciammo fare. Ma benché facessimo attenzione ad essere ben mischiati, le vergini erano così scaltre che ognuna sapeva già la sua posizione. La Vergine incominciò a contare e toccò ad una vergine; dopo di lei la settima persona era ancora una volta una vergine. La terza volta era ancora una volta una vergine e continuò così finché, con nostra grande meraviglia, tutte le vergini erano uscite e non erano toccate ad alcuno di noi, così che noi poveretti rimanemmo lì soli. Dovemmo confessare che eravamo stati giocati molto abilmente. Perché è certo che chiunque ci avesse visto nel nostro ordine avrebbe pensato piuttosto di veder crollare il cielo che non che nessuno di noi venisse scelto. Così il nostro gioco finì, e dovemmo lasciar ridere le vergini a nostre spese. Tuttavia il piccolo Cupido audace arrivò da parte di Sua Maestà Reale e ci offrì da bere a Suo nome in una coppa d’oro; pregò la Vergine di presentarsi al Re e spiegò inoltre che non poteva star oltre da noi, così noi non potevamo divertirci con lui. Lo lasciammo andare via con i nostri ringraziamenti più umili e rispettosi. Siccome nel frattempo la gioia fece venire ai miei compagni la voglia di danzare, e poiché l’idea non dispiaceva neppure alle vergini, in breve avevamo organizzato una piccola danza. Io preferii stare a guardare piuttosto che partecipare, perché vidi i nostri mercurialisti muoversi con tanta abilità, come fossero esperti nell’arte. Dopo molte danze, la nostra Presidentessa tornò e ci annunciò che gli artisti e gli studiosi avevano chiesto a S.M.R. di presentare una commedia allegra in Suo onore prima della Sua partenza. Sarebbe piaciuto a S.M.R. e ci sarebbe stato graziosamente riconoscente, se avessimo voluto assistere anche noi, accompagnando S.M. alla Casa del Sole. Ringraziando rispettosamente per l’onore che ci faceva, offrimmo umilmente i nostri deboli servigi, non soltanto nel caso presente ma in tutte le circostanze. La Vergine portò questa risposta e ritornò ben presto con l’ordine di schierarci nel corridoio per aspettare la S.M.R.. Non avemmo molto da aspettare per la processione reale; mancavano però i musicisti. In testa al corteo si avanzava la regina sconosciuta che era stata fra noi il giorno precedente, con una piccola corona preziosa in testa e rivestita di raso bianco; essa non aveva che un minuscolo crocifisso fatto di una piccola perla, ed era posta quel giorno tra il giovane Re e la sposa. Questa regina era seguita dalle sei vergini nominate prima, che camminavano in due file portando i preziosi del Re, che erano prima sul piccolo altare. Poi venivano i tre re, con lo sposo nel mezzo. Era mal vestito, di raso nero alla moda italiana; sulla testa aveva un piccolo cappello nero rotondo, guarnito di una piccola piuma nera a punta. Si scoprì amichevolmente davanti a noi, mostrandoci così il suo favore; noi ci inchinammo a lui, come ci avevano detto di fare. Dopo i re venivano le tre regine delle quali due erano vestite riccamente; invece, quella in mezzo era vestita tutta in nero e Cupido le portava il velo. Poi ci si fece segno di seguire, e dopo di noi si posero le vergini, poi finalmente il vecchio Atlante che chiudeva la processione. Così schierati arrivammo finalmente attraverso molti corridoi ammirevoli alla Casa del Sole; e lì prendemmo posto su di un palco meraviglioso non lontano dal Re e dalla Regina, per assistere alla commedia. Noi eravamo alla destra dei re, ma separati da loro; le vergini alla sinistra, eccetto quelle cui erano affidate le insegne reali. A queste ultime era riservato un posto a parte. Gli altri servitori, però, dovevano accontentarsi di stare in basso tra le colonne. Siccome questa commedia suggerisce molte cose particolari su cui riflettere, non vorrei tralasciare di ricordarne brevemente il soggetto. Primo atto. Per primo uscì un vecchio re con parecchi servitori. Venne portato davanti al suo trono un cofano che si diceva essere stato trovato in mare. Quando venne aperto vi si trovò una bella bambina, e inoltre dei gioielli e una piccola lettera sigillata in pergamena, indirizzata al re. Il re spezzò i sigilli e subito, avendo letto la lettera, si mise a piangere. Poi raccontò ai suoi cortigiani che il re dei Mori aveva invaso e devastato il regno di sua cugina e sterminata tutta la discendenza reale eccetto questa bambina. Egli aveva fatto il progetto di sposare suo figlio alla figlia della cugina; giurò dunque inimicizia mortale al Moro e ai suoi complici e di fare vendetta. Si diede l’ordine di educare con cura la bambina e di prepararsi per andare contro il Moro. Questi preparativi, così come l’educazione della bambina – essa fu affidata ad un vecchio precettore appena fu un po’ cresciuta – riempirono tutto il primo atto con il loro interessante e divertente sviluppo. Intervallo. Tra i due atti si fecero lottare insieme un leone e un grifone e il leone vinse, e fu un piacere vederlo. Secondo atto. Entrò in scena il re nero; un uomo perfido. Egli viene a sapere che il suo assassinio non era rimasto segreto e che una bambina gli era sfuggita. Perciò si fece consigliare come poteva agire astutamente contro il suo potente nemico. Questo consiglio gli fu dato da parecchi che si erano rifugiati da lui a causa della fame. Contro ogni aspettativa, la bambina cade ancora nelle sue mani ed egli l’avrebbe fatta mettere a morte se non fosse stato ingannato in modo molto singolare dai suoi cortigiani. Così quest’atto si chiude con il trionfo del Moro. Terzo atto. Nel terzo atto, una grande armata venne raccolta dal re contro il Moro e affidata al comando di un vecchio cavaliere coraggioso che attaccò la terra del Moro finché liberò la vergine dalla sua prigione e la rivestì con ricchi abiti. Si erige dopo rapidamente un palco ammirevole e vi si fa salire la vergine. Ben presto arrivano dodici inviati del re. Allora il vecchio cavaliere prende la parola e fa conoscere alla vergine come il suo grazioso signore, il re, non solo l’aveva liberata una seconda volta dalla morte, dopo averle dato un’educazione reale, e questo sebbene non si fosse sempre comportata come doveva, ma anche che S.M.R. l’aveva scelta come sposa per il suo giovane signore, suo figlio, dando l’ordine di fare i preparativi per le nozze; queste dovevano avvenire secondo condizioni precise. Poi lesse in un documento molte condizioni nobili che sarebbero ben degne di essere qui raccontate se non fosse troppo lungo. Insomma, la vergine giurò di attenersi costantemente ad esse, ringraziando per un tale alto onore. Poi incominciarono a cantare lodi di Dio, del re e della vergine e uscirono dalla scena. Intervallo. Nel frattempo ci furono mostrati per nostro divertimento i quattro animali di Daniele, come li aveva visti nella sua visione e come li aveva descritti minuziosamente. Tutto questo aveva un significato ben determinato. Quarto atto. La vergine riprende possesso del suo regno perduto; viene coronata e condotta sulla piazza per qualche tempo con questo ornamento fra la gioia di tutti. Poi arrivarono un gran numero di ambasciatori non solo per farle voti di felicità, ma anche per ammirare la sua magnificenza. Ma ella non perseverò a lungo nella sua pietà, e incominciò a gettare sguardi sfrontati all’intorno, e a far segni agli ambasciatori e ai signori, e in questo ruolo era veramente brava e non mostrava nessun ritegno. Il Moro venne presto a conoscenza dei suoi costumi e non volle perdere questa occasione. Così, mentre il suo precettore non vegliava su di lei attentamente, riuscì facilmente ad ingannarla con grandi promesse, sì che, piena di sfiducia nel suo re, poco a poco e in segreto, si affidò al Moro. Allora costui accorse, e quando essa consentì al suo dominio, egli la lusingò finchè sottomise tutto il suo regno a lui. Nella terza scena di questo atto, egli la fece condurre via, spogliare completamente, attaccare ad una colonna su un rozzo palco di legno e frustare; e infine la fece condannare a morte. Tutto questo era così pietoso da vedere che molti non potevano trattenere le lacrime. Di conseguenza fu anche buttata completamente nuda in un carcere in attesa della morte per veleno. Questo veleno però non la uccise ma la rese lebbrosa. Così anche in questo atto si svolsero degli avvenimenti piuttosto penosi. Intervallo. Viene sospesa un’immagine di Nabucodonosor, che era ornato con tutti i tipi di armi sulla testa, il petto, lo stomaco, le caviglie e i piedi … Ne riparleremo in seguito. Quinto atto. Nel quinto atto fu mostrato al giovane re quello che era successo tra il Moro e la sua futura sposa. Egli interviene subito presso suo padre con la preghiera di non lasciarla in questa situazione. Siccome il padre era d’accordo, furono mandati degli ambasciatori per consolarla nella sua malattia e nella sua reclusione e anche per riprenderla per la sua irresponsabilità. Lei non volle però riceverli e consentì a divenire la concubina del Moro. Tutto questo fu riportato al giovane re. Intervallo. Arrivò un coro di buffoni, ognuno dei quali portava un bastone e con questi bastoni costruirono in poco tempo una grande sfera terrestre e la demolirono subito. E questa fu una bella fantasia divertente. Settimo atto. Nell’ultimo atto, apparve lo sposo con magnificenza inimmaginabile in modo che mi meravigliai come avessero potuto realizzare ciò. La sposa gli venne incontro con la stessa solennità. Il popolo grida: “Viva lo sposo! Viva la sposa!” Con questa commedia tutti festeggiarono il Re e la Regina nel modo più splendido e questo – come mi accorsi – piacque loro moltissimo. Infine fecero un giro in processione e cominciarono a cantare ancora una volta, nel modo seguente: I Questo giorno ci porta una grande gioia con le nozze del Re; perciò cantate tutti in modo che risuoni fortemente: “Felicità a colui che la dona”. II La bella sposa, che aspettiamo da tanto tempo, ormai gli è unita; noi abbiamo raggiunto quello per il quale lottavamo. Felicità a colui che guarda in avanti. III Salutiamo ora i bravi genitori. Lei è stata abbastanza a lungo in tutela. Moltiplicatevi in questa unione onorevole in modo che nascano mille rampolli dal vostro sangue. La commedia finì con acclamazioni e nella gaiezza generale e con la soddisfazione particolare delle persone reali. La sera era già arrivata e perciò partimmo nello stesso ordine di prima, ma dovemmo accompagnare le Loro Maestà su per la scala a chiocciola fino alla sala già descritta. Le tavole erano già preparate magnificamente e questa fu la prima volta che fummo invitati alla tavola reale. In mezzo alla sala si mise il piccolo altare e le sei insegne reali furono poste al di sopra. Questa volta il giovane Re si mostrò molto grazioso nei nostri confronti, ma non poté essere veramente allegro, perché, sebbene parlasse con noi a più riprese, faceva molti sospiri, cosa per la quale il piccolo Cupido lo prendeva in giro audacemente. I vecchi re e le vecchie regine erano molto gravi e soltanto la sposa di uno di essi era piuttosto vivace, non so per quale ragione. Le persone reali presero posto alla prima tavola e noi ci sedemmo all’altra; alla terza si sedettero alcune dame nobili. Gli altri uomini e vergini dovevano servire. Tutto questo si svolse con una tale correttezza e con tale calma che esito a parlarne troppo. Non posso tralasciar di dire come tutte le persone reali si vestirono prima del pranzo di abiti di un bianco splendente come la neve e che avevano preso posto a tavola così vestiti. Sopra la tavola pendeva la grande corona d’oro già descritta e lo splendore delle pietre preziose, di cui era adornata, avrebbe potuto bastare ad illuminare la sala senza nessun’altra luce. Tutte le altre luci furono accese dalla piccola luce sull’altare e non so esattamente perché. Ho notato però, che il giovane Re dava spesso da mangiare al serpente bianco sull’altare, cosa che mi fece riflettere. Il piccolo Cupido faceva quasi tutte le spese della conversazione del banchetto; non lasciava in pace nessuno e me in particolare. Ad ogni istante ci meravigliò con qualche nuova trovata. Ma non c’era molta gioia e tutto si svolgeva con calma. Io presentii un grande pericolo perché mancava la musica e quando si faceva una domanda, dovevamo contentarci di dare una risposta breve e succinta. Insomma, tutto aveva un aspetto così strano che il sudore cominciò a correre su tutto il mio corpo e credo bene che anche all’uomo più audace sarebbe mancato il coraggio. Quando la cena era quasi finita, il giovane Re si fece portare il libro dall’altare e l’aprì. Poi ci fece domandare ancora una volta da un vecchio se noi eravamo determinati a restare con lui nella buona e nella cattiva fortuna. Quando noi, tutti tremanti, rispondemmo affermativamente, egli ci fece domandare ancora una volta con tristezza se volevamo legarci a lui con la nostra firma. Non potevamo far altro; doveva succedere così. Dopo di che si portò la piccola fonte di cristallo insieme con un bicchiere di cristallo. Tutte le persone reali bevvero una dopo l’altra e dopo ne fu offerto anche a noi e poi a tutti. E questo fu chiamato lo Haustus Silentii (La Prova del Silenzio). Dopo, tutte le persone reali ci diedero la mano dicendo che, se non ci fossimo tenuti fedeli a loro, d’ora in poi non le avremmo mai più viste, e questo ci fece venire veramente le lacrime agli occhi. La nostra Presidentessa giurò fedeltà a nostro nome, e le persone reali ne furono soddisfatte. Nel frattempo, suonò un campanello e tutte le persone reali diventarono così pallide che noi eravamo disperati. Si cambiarono i loro vestiti bianchi e ne indossarono altri, completamente neri e anche tutta la sala fu ricoperta di velluto nero e così pure il pavimento e il soffitto. Tutto questo era stato preparato in precedenza. Dopo aver portato via le tavole, tutti si sedettero sui banchi. Anche noi avevamo indossato dei vestiti neri. La nostra Presidentessa uscì e poi rientrò portando sei bende di taffetá nero con cui bendò gli occhi alle sei persone reali. Quando esse non videro più, i servitori portarono sei bare ricoperte e le deposero nella sala. In mezzo posero anche una sedia nera e bassa. Infine un gigante, nero come il carbone, entrò nella sala, portando nella mano un’ascia affilata. Per primo il vecchio re fu portato alla sedia e gli fu tagliata subito la testa e avvolta in un drappo nero. Il sangue fu raccolto in un grande boccale d’oro e messo con lui nella cassa, che fu coperta e messa da parte; e così avvenne anche per gli altri, di modo che io pensai che sarebbe toccato anche a me. Questo non successe, ma dopo che le sei persone reali furono decapitate, il gigante negro uscì, seguito da un altro che decapitò anche lui prima della porta e portò la sua testa insieme con l’ascia, e ambedue furono messe in una piccola scatola. A me sembravano davvero delle nozze sanguinose, ma siccome non potevo sapere quello che doveva ancora succedere, dovetti fare appello alla mia ragione, in attesa di altre notizie, perché anche la nostra Vergine ci disse di restare calmi, vedendo che alcuni di noi perdevano la fede e piangevano, e aggiunse: “D’ora in poi, la vita di costoro sta nelle vostre mani e se mi seguite, questa morte darà la vita a molti”. Poi ci pregò di andare a dormire e di non preoccuparci più, perché tutto questo sarebbe avvenuto per il loro bene. Ci augurò la buona notte, e ci disse che avrebbe vegliato i cadaveri. Facemmo così e ognuno fu accompagnato al proprio alloggio da suo paggio. Il mio paggio mi parlò molto e di tutto, cosa che mi ricordo bene anche adesso, e la sua intelligenza mi fece meravigliare. Finii col notare che egli cercava di farmi dormire e perciò feci finta di dormire profondamente, ma i miei occhi erano liberi dal sonno e non potevo dimenticare i decapitati. Il mio alloggio era di fronte al grande lago, di modo che lo potevo vedere benissimo e la finestra era vicino al letto. A mezzanotte, nel momento in cui suonavano i dodici colpi, osservai sul lago un grande fuoco e, colto da paura, aprii subito la finestra per vedere cosa stava accadendo. Vidi da lontano sette barche illuminate che si avvicinavano. Sopra ognuna, in alto, brillava una fiamma che svolazzava qua e là e ogni tanto si abbassava quasi interamente, in modo che potevo facilmente capire che dovevano essere gli spiriti dei decapitati. Queste barche si avvicinarono dolcemente alla riva e ognuna aveva un unico pilota. Appena arrivate alla riva, vidi la nostra Vergine andare incontro ad esse con una torcia; dietro di lei erano recate le sei casse chiuse e la piccola scatola e ognuna fu deposta nelle sette barche. Io svegliai anche il mio paggio che mi ringraziò molto, perché, avendo corso durante tutto il giorno, si era addormentato e avrebbe perduto l’avvenimento, pur sapendo in anticipo che si sarebbe verificato. Quando tutte le bare furono poste nelle imbarcazioni, e tutte le luci furono spente, le sei fiamme viaggiarono insieme sul lago e in ogni barca non vegliava che una piccola luce. Allora qualche centinaio di guardie si raccolsero sulla riva e la Vergine fu rimandata nel castello. Essa chiuse tutti i catenacci con cura, e io conclusi facilmente che non ci sarebbero stati altri avvenimenti prima di giorno. Così cercammo di riposare. Ero l’unico fra tutti i miei compagni ad avere la stanza davanti al lago; ed io solo avevo visto quegli avvenimenti. Tuttavia adesso ero stanco e mi addormentai insieme alle mie speculazioni.
Domandai al mio paggio il significato di questi caratteri; egli promise ridendo che l’avrei saputo. Poi spense la fiaccola e risalimmo. Esaminando le porte da vicino, mi accorsi solo allora che ad ogni angolo ardeva una luce pirica che non avevo mai visto prima, perché il fuoco bruciava con tanto chiarore che assomigliava più ad una pietra che ad una luce. L’albero esposto a questo calore non cessava di fondere tutto e di produrre sempre nuovi frutti. “Ascolta”, disse il paggio, “quello che ho sentito dire da Atlante, parlando al Re. Quando l’albero sarà completamente sciolto, la Dama Venere si sveglierà e sarà la madre di un Re”. Mentre diceva questo e stava forse per dire di più, il piccolo Cupido entrò volando. Dapprima, egli fu meravigliato di constatare la nostra presenza, ma quando vide che eravamo più morti che vivi, scoppiò a ridere e mi chiese quale spirito mi avesse condotto fin lì. Io risposi tremante che mi ero perso nel castello ed arrivato poi per caso, e che il paggio mi aveva cercato dappertutto e finalmente mi aveva trovato lì; speravo infine che egli non avrebbe preso la cosa male. “E’ ancora scusabile così”, mi disse, “mio vecchio padre temerario. Ma Voi avreste potuto facilmente oltraggiarmi grossolanamente se vi foste accorti di questa porta. E’ tempo che io prenda le mie precauzioni”. Detto ciò, mise una serratura pesante alla porta di rame per la quale eravamo scesi prima. Io ringraziai Dio che non ci aveva incontrati prima e anche il mio paggio era felice poiché l’avevo aiutato. “Tuttavia”, disse Cupido, “non posso lasciare impunito il fatto che stavate per sorprendere la mia cara madre”. E allora riscaldò la punta di una delle sue frecce in una delle piccole luci e mi colpì sulla mano. Io non sentii quasi nulla, ma ero felice perché eravamo riusciti così bene a cavarcela con poco. Nel frattempo i miei compagni si erano alzati dal letto e si trovavano nella sala. Io li raggiunsi e facevo finta di essermi appena alzato. Cupido che aveva ben chiuso tutte le porte dietro di lui, venne da noi e io dovetti mostrargli la mano. Vi era ancora una goccia di sangue di cui rise e prevenne gli altri dal guardarsi da me, che sarei cambiato di lì a poco. Tutti si meravigliarono del fatto che Cupido fosse così allegro; non sembrava preoccuparsi per niente dei tristi avvenimenti di ieri e non portava alcun segno di lutto. Nel frattempo, la nostra Presidentessa aveva preparato tutto per la partenza; essa era apparsa vestita di velluto nero e tenendo il suo ramo di lauro in mano; e tutte le sue vergini avevano rami di lauro in mano. Quando ogni cosa fu pronta, la Vergine ci disse di dissetarci e di prepararci per la processione. Noi non perdemmo un istante e la seguimmo nella corte. Sei bare erano poste in questo cortile ed i miei compagni erano convinti che esse rinchiudessero i corpi delle sei persone reali. Io però sapevo la verità; tuttavia ignoravo cosa era avvenuto delle altre bare. Vicino ad ogni cassa c’erano otto uomini mascherati. Appena la musica cominciò (una musica così grave e triste che mi spaventai) questi uomini levarono le bare e a noi fu dato l’ordine di seguirli fin nel giardino già descritto, nel mezzo del quale era levato un piccolo edificio di legno, il cui tetto era adornato da una splendida corona sostenuta da sette colonne. Dentro vi avevano scavate sei tombe e vicino ad ognuna c’era una pietra rotonda, vuota e più elevata. Si deposero le bare nelle tombe silenziosamente e con molte cerimonie, poi furono messe sopra le pietre e sigillate. La piccola scatola trovò il suo posto nel mezzo. E’ così che i miei compagni furono ingannati, perché essi erano persuasi che i corpi riposassero lì. In alto c’era una grande bandiera con l’immagine di una fenice, forse per ingannarci maggiormente. Io ringraziai Dio perché avevo visto più degli altri. Dopo i funerali la Vergine salì sulla pietra centrale e fece un breve discorso. Ci disse che dovevamo attenerci alla nostra promessa e di non lamentarci delle nostre fatiche, ma di aiutare a ridare la vita alle persone reali che erano state sepolte adesso. A questo fine dovevamo metterci senza ritardo in viaggio e navigare con lei verso la Torre dell’Olimpo per cercarvi il rimedio appropriato ed indispensabile. Questo discorso ebbe la nostra approvazione e seguimmo dunque la Vergine attraverso un’altra piccola porta, fino alla riva dove si trovavano le sette barche descritte prima, tutte vuote. Tutte le vergini vi attaccarono il loro ramo di lauro e dopo averci divisi tra le sei barche, ci lasciarono partire nel nome di Dio e ci guardarono finché fummo in vista; dopo si ritirarono ancora una volta nel castello con tutte le guardie. Le nostre imbarcazioni avevano ognuna una grande bandiera e un’insegna particolare. Su cinque dei vascelli si vedevano i cinque Corpora regularia, uno diverso su ogni nave, e la mia, dove aveva preso posto la Vergine, portava un globo. Noi navigammo così in ordine stabilito, ogni vascello non contenendo più di due piloti. In testa veniva il piccolo vascello A, dove, secondo me, giaceva il negro; portava dodici musicisti che suonavano bene; e la sua insegna era una piramide. Era seguita dai tre vascelli B, C, D, che navigavano insieme, sui quali eravamo noi. Io ero in C. Al centro navigavano le due barche più belle e più splendide ornate di una quantità di rami di lauro; esse non portavano nessuno e battevano la bandiera della Luna e del Sole. Per ultima veniva la nave G, che recava quaranta vergini.
Dopo aver navigato così attraverso il lago, uscimmo attraverso uno stretto passaggio sul mare aperto. Lì tutte le Sirene, Ninfe e dee dei mare ci aspettavano e mandarono subito una giovane ninfa, incaricata di farci avere il loro dono di nozze e il loro ricordo. Quest’ultimo consisteva di una grande, magnifica perla montata, come non ne è mai stata vista né nel nostro né nel nuovo mondo; essa era rotonda e brillante. Quando la Vergine l’ebbe accettata amichevolmente, la ninfa domandò se si voleva dare ascolto alle sue compagne, fermandoci lì un istante; la Vergine vi acconsentì. Diede l’ordine di mettere in mezzo le due grandi navi e di formare con le altre un pentagono; poi le ninfe si schierarono intorno e cantarono con una dolce voce:
Non c’è niente di meglio sulla terra Che il bello e nobile amore. Per mezzo di lui, noi eguagliamo Dio, Con lui nessuno affligge gli altri. Perciò cantiamo al Re Facciamo risuonare il mare Noi chiediamo, rispondete voi.
II
Chi ci ha portato la vita? L’amore. Chi ci ha reso la grazia? L’amore. Da dove siamo nati? Dall’amore. Come saremmo noi perduti? Senza l’amore.
III
Chi dunque ci ha generato? L’amore. Perché ci hanno nutriti? Per amore. Che cosa dobbiamo ai genitori? L’amore. Perché essi hanno tanta pazienza? Per amore.
IV
Chi è vincitore? L’amore. Come si può trovare l’amore? Con l’amore. Quando si vede l’opera buona? Nell’amore. Chi può ancora unire due? L’amore.
V
Ora cantate tutti E fate risuonare il canto Per glorificare l’amore. Che si accresca presso i nostri Signori Il Re e la Regina. I loro corpi sono qui, l’anima è là.
VISe noi viviamo ancora Dio accorderà che, come l’amore e la grande grazia Li hanno separati con grande forza, Così attraverso la fiamma dell’amore Noi li riuniremo di nuovo con felicità.
VII Questo dolore sarà trasformato eternamente In grande gioia Anche se passeranno migliaia d’anni.Ascoltando questo canto melodioso, non mi sorprese che Ulisse avesse tappato le orecchie dei suoi compagni. Pensavo di essere il più miserabile degli uomini, perché la natura non aveva fatto di me una creatura così adorabile. Ma ben presto la Vergine si congedò e diede ordine di continuare il viaggio. Le ninfe ruppero il cerchio e si sparsero nel mare dopo aver ricevuto come dono un lungo nastro rosso. In questo momento io sentii che Cupido cominciava ad operare anche in me, cosa che non mi faceva affatto onore; ma, poiché in ogni modo le mie bugie non possono servire al lettore, voglio notarlo. Ciò rispondeva perfettamente alla ferita che avevo ricevuto alla testa nel sogno del primo giorno; e se qualcuno vuole un buon consiglio, deve evitare il letto di Venere, perché Cupido non può soffrire questo fatto. Dopo parecchie ore, quando avevamo coperto una lunga strada, parlando amichevolmente fra di noi, diventò visibile la Torre dell’Olimpo. La Vergine ordinò dunque di fare diversi segnali per annunciare il nostro arrivo. Subito vedemmo apparire una grande bandiera bianca e ci venne incontro un piccolo vascello d’oro. Quando stava per accostarci, distinguemmo un vegliardo circondato da alcuni servi vestiti di bianco; ci fece accoglienza amichevole e ci condusse alla Torre. La Torre era costruita su di un’isola perfettamente quadrata e circondata da un muro tanto solido e spesso che io contai duecentosessanta passi nel traversarlo. Dietro a questa cinta si stendeva un bel prato con molti gradini dove crescevano frutti strani che mi erano sconosciuti; poi c’era un muro che proteggeva la Torre. Quest’ultima in se stessa sembrava formata dalla giustapposizione di sette torri rotonde; quella in centro era un po’ più elevata. All’interno esse si interpenetravano l’una con l’altra e c’erano sette piani sovrapposti. Quando raggiungemmo la porta, ci si condusse sul muro, in modo che, come mi accorsi benissimo, si potevano portare le bare nella Torre a nostra insaputa, ma i miei compagni lo ignoravano. Dopodiché, ci condussero nel piano inferiore della Torre. Qui c’era una sala decorata con arte, ma vi trovammo poche distrazioni perché non era altro che un laboratorio. Lì dovemmo pestare e lavare erbe, pietre preziose e diverse materie per estrarne il succo e l’essenza e riempirne delle fiale di vetro che venivano messe da parte con cura. La nostra Vergine era così attiva e abile che non ci lasciava senza lavoro. Noi avremmo dovuto lavorare assiduamente e senza sosta in quest’isola finché avessimo terminato i preparativi per rivivificare i corpi decapitati. Durante questo tempo – come venni a sapere dopo – le tre vergini erano nella prima sala e lavavano con cura i cadaveri. Finalmente, quando avevamo quasi finito queste preparazioni, ci venne portato come unico pasto una zuppa e un po’ di vino, per cui mi accorsi che non eravamo lì per nostro divertimento; e quando avemmo terminato il nostro compito per quel giorno, ci dovemmo accontentare di una coperta che venne stesa al suolo per ognuno di noi. Da parte mia il sonno non mi attirava; camminai dunque nel giardino, e mi avvicinai fino al muro; e poiché il cielo era terso, passai il tempo a osservare le stelle. Scoprii per caso degli alti gradini di pietra che conducevano sul muro e poiché la Luna brillava così chiaramente, diventai tanto audace, che salii e mi guardai un po’ intorno sul mare, che era tutto tranquillo. Siccome avevo una buona occasione per meditare sull’astronomia, scoprii che quella notte stessa ci sarebbe stata una congiunzione dei pianeti tale che non si sarebbe ripetuta che dopo molto tempo. Osservai così a lungo il cielo al di sopra del mare, che, quando suonò mezzanotte, vidi le sette fiamme arrivare dal mare e posarsi sulla cima della Torre; io fui preso della paura perché quando le fiamme si posarono, il vento si levò e si mise a scuotere il mare. Poi la Luna si coprì di nubi e la mia gioia finì in un tale spavento che riuscii a malapena a ritrovare la scala di pietra e ritornare giù nella Torre. Non posso dire se le fiamme rimasero molto tempo o se ripartirono, perché non osavo uscire in un tale buio. Così,mi stesi sulla coperta e mi addormentai facilmente al mormorio calmo, costante e piacevole della fontana del nostro laboratorio. Così questo quinto giorno terminò ugualmente in un modo meraviglioso.
O. BLI. TO. BIT. MI. LI. KANT. I. VOLT. BIT. TO. GOLT.
Sul secondo lato c’erano queste tre parole:SANITAS. NIX. HASTA.
Il terzo non aveva che questa unica parola:
F.I.A.T.
Ma sulla faccia posteriore c’era tutta l’iscrizione seguente:QUELLO CHE E’ Il Fuoco, l’Aria, l’Acqua e la Terra ALLE SANTE CENERI DEI NOSTRI RE E DELLE NOSTRE REGINE Non potranno strapparlo. La fedele schiera degli alchimisti IN QUESTA URNA raccolse Aò
Io lascio ai dotti di discutere se queste iscrizioni si riferivano alla sabbia o all’uovo; io mi accontento di compiere il mio dovere senza omettere nulla. Adesso il nostro uovo era pronto e fu tolto dalla sabbia. Non fu necessario rompere il guscio, perché l’uccello se ne liberò da solo e si dimostrò tutto vivace, ma era difforme d’aspetto e tutto sanguinante. Noi lo posammo dapprima sulla sabbia calda, poi la Vergine diede ordine di legarlo prima di dargli da mangiare; altrimenti ci avrebbe dato abbastanza da fare. Questo infatti successe. Gli si portò subito il nutrimento, che non era altro che il sangue dei decapitati diluito ancora una volta con l’acqua preparata. L’uccello crebbe allora così rapidamente sotto i nostri occhi, che potevamo ben vedere perché la Vergine ci aveva messi in guardia contro di lui. Mordeva e graffiava aggressivamente attorno a sé, e se avesse potuto impadronirsi di uno di noi, l’avrebbe finito ben presto. Adesso era tutto nero e selvaggio e perciò gli fu portato altro cibo, forse il sangue di un’altra persona reale. Con questo tutte le sue penne nere caddero e delle penne bianche come la neve crebbero al loro posto; e diventò meno selvaggio e si lasciava avvicinare più facilmente; tuttavia noi lo guardavamo ancora con diffidenza. Col terzo pasto, le sue penne cominciarono a diventare colorate e così belle che non ne avevo viste di uguali in tutta la mia vita, e si familiarizzò talmente con noi che lo liberammo dai suoi lacci, con l’assenso della Vergine. “Ora”, disse la Vergine, “siccome la vita e la più grande perfezione sono state date all’uccello, grazie alla vostra applicazione, è giusto che, con il consenso del nostro vegliardo, noi festeggiamo gioiosamente questo avvenimento”. Poi diede l’ordine di servire il pasto e ci invitò a ristorarci perché ormai la parte più difficile dell’opera era terminata e potevamo cominciare, a buon diritto, a gustare la gioia del lavoro compiuto. Cominciammo a scherzare fra di noi, ma portavamo ancora i nostri vestiti di lutto, cosa che, nella nostra gioia, ci sembrava abbastanza ridicola. Tuttavia, la Vergine continuava a fare delle domande, forse per sapere quelli che avrebbero potuto essere utili per il compimento dei suoi progetti. Sembrava più preoccupata per la fusione; e fu ben sollevata quando seppe che uno di noi conosceva i segreti del mestiere, cosa che conviene ad un artista. Il pasto non durò più di tre quarti d’ora, e lo passammo per la maggior parte con il nostro uccello, che bisognava alimentare continuamente del suo cibo. Questa volta, però, non cambiava di dimensioni. Non ci fu permesso di fare una lunga pausa dopo il nostro pasto, ma dopo che la Vergine e l’uccello ci avevano lasciati, ci fu aperta la quinta sala. Vi salimmo nel modo già descritto più volte, e ci apprestammo al lavoro. In questa sala era stato preparato un bagno per il nostro uccello; questo bagno fu colorato con una polvere bianca, in modo che prese l’aspetto di latte. Dapprima, quando ci si immerse l’uccello, era freddo e lui ne prese gusto e giocava. Ma quando il calore delle lampade, che erano state messe sotto, cominciò a scaldare il bagno, avemmo molta difficoltà a tenervelo dentro. Mettemmo perciò un coperchio sulla vasca e lasciammo passare la sua testa attraverso il buco, finché perse tutte le sue penne in questo bagno e diventò glabro come un uomo. Il calore non gli recava più danno, cosa che mi meravigliò molto, anche perché tutte le piume furono distrutte in questo bagno, che prendeva da esse un colore blu. Finalmente, lasciammo uscire l’uccello dal bagno; era così liscio e lucido che faceva piacere guardarlo. Poiché era un po’ selvaggio, dovemmo mettergli una collana con una catena attorno al collo e portarlo in giro per la stanza. Nel frattempo, si accese un grande fuoco sotto la caldaia, e il bagno evaporò finché divenne secco, in modo che ne restò una pietra blu che dovemmo togliere della caldaia e pestare; infine, dipingemmo la pelle dell’uccello con questo colore. Esso divenne meraviglioso a vedersi, perché era tutto blu fino alla testa, che rimaneva bianca. Con ciò avevamo compiuto il lavoro su questo piano, e dopo che la Vergine, con il suo uccello blu, ci lasciò, fummo chiamati attraverso un’apertura, al sesto piano. Lì assistemmo ad uno spettacolo rattristante. Fu messo al centro della sala un piccolo altare perfettamente simile a quello che avevamo visto nella sala del Re; sopra c’erano i sei oggetti descritti e l’uccello stesso era il settimo. Prima gli fu offerta la piccola fontana a cui l’uccello si dissetò; poi morse il serpente in modo da farlo sanguinare. Noi dovemmo raccogliere questo sangue in una coppa d’oro e versarlo nella bocca dell’uccello che vi si opponeva violentemente; poi introducemmo la testa del serpente nella fontana, il che gli ridonò la vita; si arrampicò subito nel teschio e non lo vidi per molto tempo. Nel frattempo, la sfera continuava a girare, finché la congiunzione desiderata ebbe luogo; subito il piccolo orologio suonò un colpo. Dopo avvenne la seconda congiunzione e l’orologio suonò due colpi. Infine, quando la terza congiunzione fu osservata, e annunciata dall’orologio, il povero uccello si lasciò decapitare umilmente, senza resistenza, da quello di noi che era stato designato dalla sorte. Tuttavia non ne uscì una sola goccia di sangue, finché non gli si aprì il petto. Allora il sangue sprizzò fuori così fresco e chiaro che assomigliava ad una fontana di rubino. La sua morte ci penetrò fino al cuore, tuttavia siccome pensavamo che l’uccello stesso non ci servisse a gran che, avevamo accettato di fare così. Sparecchiammo subito dopo il piccolo altare e aiutammo la Vergine ad incenerire il corpo sull’altare, insieme con la tavoletta che vi era sospesa, per mezzo del fuoco attinto dalla piccola luce. Questa cenere fu purificata a più riprese e conservata con cura in una cassettina di legno di cipresso. Ma ora, devo raccontare l’incidente che successe a me e a tre dei miei compagni. Quando avemmo raccolto con cura la cenere, la Vergine cominciò a parlare come segue: “Cari signori, siamo qui nella sesta sala e non ne abbiamo che una ancora davanti a noi per porre termine ai nostri sforzi, poi faremo il viaggio di ritorno al castello per svegliare i nostri graziosi Signori e Signore. Io avrei desiderato che tutti coloro che sono qui presenti si fossero comportati in modo che io potessi proclamare i loro meriti e ottenere per essi una degna ricompensa presso i nostri Altissimi Re e Regina. Purtroppo, ho dovuto riconoscere che tra di voi questi quattro – e mi indicò insieme con altri tre – sono degli operatori pigri e lenti, ma, nel mio amore per tutti, non voglio designarli per la punizione ben meritata, ma vorrei tuttavia, affinché una tale pigrizia non rimanga impunita, ordinare questo, che loro soli restino esclusi della settima operazione, la più ammirevole di tutte: invece non li si esporrerà ad alcuna punizione più tardi, quando saremo davanti a S.M.R.”. Lascio immaginare come mi sentivo durante questo discorso! La Vergine parlava con tanta gravità che le lacrime inondavano i nostri visi e ci consideravamo i più sfortunati degli uomini. Poi la Vergine fece chiamare i musicisti da una delle ancelle (che l’accompagnavano sempre in un certo numero) e ci si mise alla porta a suon di cornette che i musicisti facevano fatica a suonare tanto erano scossi dalle risa. Noi eravamo particolarmente risentiti, perché la Vergine si prendeva gioco delle nostre lacrime, della nostra collera e della nostra indignazione; inoltre, alcuni dei nostri compagni si rallegravano certamente della nostra disgrazia. Ma il seguito fu ben inatteso; perché appena oltrepassammo la porta, i musicisti ci invitarono a cessare i nostri pianti ed a seguirli gioiosamente sulla scala e ci condussero nella soffitta, sopra il settimo piano. Lì ritrovammo il vecchio, che non avevamo visto dal mattino, in piedi davanti ad un piccolo abbaino rotondo. Ci accolse amichevolmente e si congratulò con noi di tutto cuore perché eravamo stati scelti dalla Vergine: scoppiò quasi dal ridere quando però seppe quale era stato il nostro spavento al momento di raggiungere una tale fortuna. “Imparate da ciò”, disse, “che l’uomo non sa mai quanto Dio gli vuol bene”. Durante questa conversazione, la Vergine arrivò correndo con il suo scrigno, e dopo aver riso di noi, vuotò le ceneri in un recipiente e lo riempì con un’altra materia, dicendo che era obbligata ora ad ingannare i nostri compagni. Nel frattempo, noi dovevamo eseguire gli ordini del vecchio e non diminuire i nostri sforzi. Con questo ci lasciò e ritornò nella settima sala dove aveva radunati i nostri compagni. Io ignoro l’inizio dell’operazione che essa fece insieme a loro, perché non solo era stato vietato loro assolutamente di parlarne, ma anche noi non potevamo vederli attraverso il pavimento a causa delle nostre occupazioni. Ecco quale fu il nostro lavoro. Dovemmo inumidire le ceneri con l’acqua da noi preparata in precedenza in modo da farne una pasta fine. Dopo mettemmo la materia sul fuoco sinché si fu riscaldata. Allora la versammo tutta calda in due stampi e la lasciammo raffreddare un po’. (A questo punto avemmo il tempo di guardare un po’ i nostri compagni attraverso le fessure del pavimento: essi erano indaffarati intorno ad un fornello e ognuno doveva soffiare sul fuoco con un tubo. Stavano lì intorno soffiando, sino a perdere il fiato, ma ben convinti che avevano una sorte migliore della nostra. Questo soffiare durava ancora quando il vecchio ci richiamò al lavoro, sicché non posso dire quello che avvenne dopo.) Aprimmo i piccoli stampi e vi vedemmo due belle figure chiare e quasi trasparenti come occhi umani non ne hanno mai viste. Erano un giovane e una giovane. Ognuno non era che di quattro pollici di lunghezza e il fatto che mi meravigliò di più era che non erano duri ma di una carne molle come quella degli altri uomini. Tuttavia mancava loro la vita, ma ero convinto che anche Venere era fatta così. Posammo questi due adorabili giovanetti su due piccoli cuscini di raso e non cessavamo di guardarli, senza poterci staccare da questo spettacolo grazioso, fin quasi a istupidirci. Ma il vecchio ci fece smettere e diede l’ordine di lasciar cadere a goccia a goccia il sangue dell’uccello raccolto in una piccola coppa, nella bocca delle figurine. Queste ingrandirono allora a vista d’occhio, e abbellirono in proporzione alla loro crescita. Bisognava che tutti i pittori fossero stati lì per arrossire delle loro opere dinanzi a questa creazione della Natura. Ma ora esse ingrandirono talmente che dovemmo toglierle dai cuscini e stenderle su di una lunga tavola ricoperta di velluto bianco; poi il vecchio ci ordinò di coprirle fino al petto con taffetà doppio, bianco e soffice; cosa che facemmo con dispiacere a causa della loro indicibile bellezza. Infine, per dirla in breve, prima che avessimo finito il sangue, essi avevano raggiunto la loro grandezza da adulti, avevano i capelli con riccioli biondi e l’immagine di Venere che avevo visto prima non era niente in confronto a loro. Tuttavia, non c’era ancora calore naturale né sensibilità: erano come delle immagini morte, che avevano però un colore vivo e naturale. Allora il vecchio fece cessare l’alimentazione per evitare che divenissero troppo grandi; poi coprì loro il viso con un drappo e fece piantare delle torce intorno alla tavola. (Qui devo avvisare il lettore perché non consideri queste luci come indispensabili, essendo stata unica intenzione del vecchio quella di non farci accorgere del momento in cui l’anima entrava in loro; e in effetti non ce ne saremmo accorti, se io non avessi visto già due volte le fiamme; tuttavia non avvisai dell’inganno gli altri e così lasciai ignorare al vecchio che ne sapevo di più.) Allora il vecchio ci fece prendere posto su di un banco davanti alla tavola e subito la Vergine arrivò con la musica e tutta la sua compagnia. Essa portava due bei vestiti bianchi come non ne avevo mai visti nel castello e che sfidano ogni descrizione, perché non posso credere altro che fossero di puro cristallo, e tuttavia erano soffici e non trasparenti; è dunque impossibile parlarne. Essa li pose su una tavola e, dopo aver disposto le sue vergini attorno al banco, lei e il vecchio cominciarono intorno al tavolo le loro cerimonie, ma questo avveniva solo per ingannarci. Tutto questo succedeva, come già detto, sotto il tetto, che aveva una forma veramente singolare; all’interno era formato da sette grandi semisfere cave, di cui quella in mezzo, la più alta, aveva una piccola apertura rotonda in cima, che in quel momento era chiusa, e di cui gli altri non si erano accorti. Dopo lunghe cerimonie, entrarono sei vergini, ognuna delle quali portava una grande tromba avvolta con una sostanza fosforescente come da una corona. Il vecchio ne prese una e, dopo aver spento qualche luce in alto, scoprì i visi e mise una delle trombe sulla bocca di uno dei corpi, in modo che la parte svasata arrivava direttamente di fronte all’apertura di cui ho detto prima. In questo momento, i miei compagni guardavano le due figure, ma io avevo altre preoccupazioni, perché dal momento che vennero accese le foglie, o le corone che circondavano la tromba, vidi il foro in alto aprirsi, e un raggio di fuoco precipitarsi nel tubo e entrare nei corpi; l’apertura si chiuse subito e la tromba fu levata. I miei compagni furono ingannati con questo trucco perché immaginavano che la vita fosse entrata nel corpo attraverso il fuoco delle foglie. Appena il corpo ricevette l’anima, aprì e chiuse gli occhi, ma non faceva quasi altri movimenti. In seguito una seconda tromba fu applicata sulla bocca; si accese la corona e così si permise all’anima di scendere attraverso il tubo; ciò avvenne tre volte per ogni figura. Tutte le luci furono spente e portate via; la coperta di velluto della tavola fu ripiegata sui corpi e fu aperto e preparato un letto da viaggio, nel quale furono portati i corpi tutti avvolti; poi li si fece uscire dalla coperta e li si distese uno a lato dell’altro. Allora, con le tende chiuse, dormirono per molto tempo. Era veramente tempo che la Vergine si occupasse degli altri artisti; perché, come mi disse più tardi, avevano dovuto lavorare l’oro. Certo, è anch’essa una parte dell’arte, ma non la più nobile, la più necessaria e la migliore. In effetti, pure gli altri possedevano una parte di questa cenere, sicché essi credettero che l’uccello non fosse destinato altro che a produrre dell’oro e che, attraverso questo, la vita doveva essere resa ai decapitati. Quanto a noi, restavamo là in silenzio, attendendo il momento in cui gli sposi si sarebbero svegliati; trascorse in questa attesa circa una mezz’ora. Allora il malizioso Cupido fece la sua entrata e dopo averci salutato, volò presso di loro, sotto la tenda e li disturbò affinché si svegliassero. Il loro stupore fu grande al risveglio, perché non pensavano altro che di aver dormito dall’ora in cui erano stati decapitati. Cupido li fece riconoscere l’uno all’altro, poi si ritirò un istante perché potessero rimettersi. Nell’attesa, venne a giocare con noi e infine si portò della musica e si fece un po’ di allegria. Ben presto la Vergine pure ritornò; essa salutò rispettosamente il giovane Re e la Regina – che trovò un po’ deboli – baciò loro la mano e diede loro i due bei vestiti, che indossarono, e così abbigliati uscirono. Due bei troni erano già stati preparati e loro si sedettero e furono salutati da noi con grande reverenza. Il Re ci ringraziò graziosamente di persona e ci dimostrò ancora una volta il suo grande favore. Adesso erano già le cinque e loro non potevano tardare più, e dunque appena le cose più importanti erano state imbarcate, dovevamo condurre le giovani persone reali giù per la scala a chiocciola per tutti i passaggi ed i corpi di guardia, fuori sino alla nave. Loro si sedettero dentro con alcune vergini e Cupido, e partirono così in fretta che ben presto li perdemmo di vista; secondo quello che mi dissero dopo, si era venuto loro incontro con alcune navi splendide, in modo che traversassero una grande distanza sul mare in quattro ore. Dopo le cinque, si ordinò ai musicisti di fare il carico delle navi e di prepararsi per la partenza. Ma poiché questo avveniva lentamente, il vecchio fece uscire una parte dei suoi soldati che noi non avevamo visto finora, perché erano stati nascosti nella mura. In tal modo, mi accorsi che la Torre era ben equipaggiata per difendersi. Questi soldati finirono presto di caricare i nostri bagagli e così non ci restava che cenare. Quando le tavole furono preparate, la Vergine ci ricondusse dai nostri compagni e veramente dovevamo prendere un’aria afflitta e soffocare le risa. Essi mormorarono tutto il tempo fra di loro; alcuni però ci commiseravano. Durante questa cena, anche il vecchio restò con noi. Egli era un sorvegliante severo; non c’era argomento, per quanto difficile, che non sapesse trattare, o anche criticare e completare, dandoci così un buon insegnamento. E’ da questo signore che io appresi di più, e sarebbe bene che tutti si recassero da lui per imparare; così le cose non andrebbero tanto male. Dopo questa cena, il vegliardo ci condusse nei suoi musei edificati lungo la circonferenza dei bastioni, dove vedemmo delle meravigliose creazioni della Natura e anche delle immagini della Natura prodotte dall’intelligenza umana; ci sarebbe voluto ancora un anno per osservare tutto. Prolungammo questa visita alla luce di fiaccole fino a tarda notte. Infine, poiché tendevamo a voler dormire più che a continuare a guardare delle cose nuove, fummo condotti nelle nostre camere e restammo meravigliati di trovare nelle mura non soltanto dei buoni letti, ma anche degli appartamenti straordinariamente eleganti, mentre il giorno prima avevamo dovuto accontentarci di così poco. Poiché ero ormai quasi senza preoccupazioni, ed ero stanco per il lavoro, il suono tranquillo del mare mi procurò un sopore così profondo e dolce che caddi in un sonno continuo dalle undici alle otto della mattina dopo.AR. NAT. MI. Ars Naturae Ministra (l’arte è la sacerdotessa della natura)
e sull’altro queste:TEM. NA. F. Temporis Natura Filia (la natura è figlia del tempo)
Egli ci impegnò a non agire mai al di là e contrariamente all’istruzione di questa medaglia commemorativa. Andammo quindi verso il mare. Qui erano preparate le nostre navi, ornate così mirabilmente che non sembrava possibile che cose così belle fossero state portate proprio lì. C’erano dodici navi, sei nostre e sei del vegliardo. Quest’ultimo fece riempire le sue di soldati prestanti, poi prese posto nella nostra in cui eravamo tutti riuniti. I musicisti, di cui il vecchio possedeva un gran numero, si misero nella prima nave davanti a noi, per distrarci. Le nostre bandiere erano i dodici segni dello Zodiaco e noi eravamo in quella che portava la Bilancia. Tra le altre cose, la nostra nave aveva anche un orologio di una bellezza ammirevole che indicava tutti i minuti. Il mare era così tranquillo che fu un piacere particolare navigare. Ma il discorrere col vecchio fu la cosa principale; egli sapeva far passare il tempo con delle storie tanto meravigliose che avrei voluto navigare con lui per tutta la vita. Nel frattempo le navi avanzarono con maggiore velocità e non avevamo ancora fatto due ore di viaggio che il capitano ci disse di vedere già dei vascelli in un tale numero che coprivano tutto il lago. Concludemmo che si veniva incontro a noi, ed era giusto, perché appena avemmo lasciato il mare e raggiunto il lago, per mezzo del fiume già descritto, si fermarono circa 500 navi. Una fra di esse splendeva d’oro e di pietre preziose; essa portava il Re e la Regina con altri signori, dame, damigelle di alto rango. Appena giunse a vista d’uomo, si fece sparare a salve da due lati, e le trombe, tromboni e batterie di guerra suonarono così forte che fecero tremare tutte le navi sul lago. Infine, appena le raggiungemmo, circondarono le nostre navi e si fermarono. Il vecchio Atlante arrivò subito dalla parte del Re e tenne un breve ma elegante discorso, con il quale ci salutò e domandò se era pronto il dono reale. Gli altri miei compagni furono meravigliati della resurrezione di questo re, perché erano convinti che dovevano risvegliarlo loro. Li lasciammo nella loro meraviglia e fingemmo anche noi di trovarlo strano. Dopo il discorso di Atlante, venne avanti il nostro vegliardo; egli parlò più a lungo, augurando al Re e alla Regina ogni felicità e prosperità e consegnò un piccolo scrigno grazioso. Non so che cosa contenesse, ma venne affidato a Cupido, che girava fra loro due. Dopo che fu concluso questo discorso, si fece sparare di nuovo a salve e navigammo abbastanza a lungo insieme, finché raggiungemmo un’altra riva. Questa riva era vicina alla prima porta, attraverso la quale ero entrato all’inizio. Un gran numero di servitori del Re aspettava di nuovo in questo posto, con centinaia di cavalli. Appena arrivati sulla terra ferma, il Re e la Regina offrirono la mano a tutti con grande amicizia e dovemmo montare a cavallo. Qui vorrei pregare il lettore di non attribuire il racconto seguente al mio orgoglio o alla volontà di vantarmi; infatti tacerei volentieri l’onore che mi fu dimostrato, se non fosse indispensabile raccontarlo. Ci si divise tutti, uno dopo l’altro, tra i signori, ma il nostro vegliardo ed io, indegno, dovemmo cavalcare a fianco del Re, portando ciascuno una bandiera bianca con una croce rossa. Io certo ebbi questa posizione a causa della mia vecchiaia, perché avevamo tutti e due i capelli e la barba lunghi e grigi. Io avevo attaccato al cappello le mie insegne, delle quali si accorse ben presto il giovane Re, che mi chiese se fossi io quello che aveva potuto scambiare le insegne sotto la porta. Io risposi umilmente di sì, ma egli rise di me, dicendo che da quel momento in poi, non sarebbe occorsa alcuna cerimonia, che Io ero suo padre. Mi chiese con che cosa le avevo scambiate ed io risposi con del sale e con dell’acqua. Si meravigliò che fossi stato tanto fine. Diventando più audace, gli raccontai come era andato col mio pane, la colomba e il corvo. Egli ascoltò con piacere e disse anche che Dio doveva avermi destinato una fortuna particolare. Così arrivammo alla prima porta, dove c’era il guardiano vestito di blu, che teneva in mano una supplica. Appena mi vide a fianco del Re, mi diede la supplica, con l’umile richiesta di ricordare presso il Re la sua amicizia nei miei confronti. Prima chiesi al Re la storia di questo guardiano. Egli mi rispose amichevolmente che era un astrologo conosciuto e abilissimo, che era sempre stato stimato dal Signore suo padre. Ad un certo momento aveva peccato contro la Dama Venere, osservandola sul suo letto di riposo e perciò aveva ricevuto questa punizione, di dover sorvegliare la prima porta, finché qualcuno lo avesse liberato. Io chiesi se sarebbe stato possibile liberarlo e il Re rispose di sì; purché si trovasse qualcuno che, avendo commesso un peccato tanto grave quanto il suo, dovesse prendere il suo posto ed egli sarebbe stato libero. Queste parole mi penetrarono fino al cuore, perché la mia coscienza m’indicava che ero io questo malfattore; tacqui però, e consegnai la supplica. Appena l’ebbe letta, il Re si spaventò tanto che se ne accorse anche la Regina, che ci seguiva a cavallo, insieme con le nostre vergini e un’altra regina che avevo descritto nella cerimonia della sospensione dei pesi. Gli chiese perciò che cosa era questa lettera. Egli non voleva dirne niente e incominciò a parlare di altre cose, finché raggiungemmo il castello alle tre. Qui scendemmo da cavallo e accompagnammo il Re nella sua stanza che ho già descritta. Il Re si ritirò con il vecchio Atlante in una piccola camera, e gli mostrò la lettera. Quest’ultimo non perse del tempo, ma tornò subito a cavallo dal guardiano della porta, per informarsi meglio della faccenda. Il Re si sedette con la sua sposa ed altri Signori, dame e damigelle. La nostra Vergine incominciò a lodare molto la nostra diligenza, le nostre pene e il nostro lavoro, con la preghiera che il Re ci ricompensasse, e di lasciarla godere in futuro del frutto del suo incarico. Anche il vecchio si alzò e confermò la giustezza di quello che aveva detto la Vergine e che perciò era giusto soddisfare tutte due queste domande. Noi dovemmo ritirarci un po’ e fu deciso che ognuno doveva esprimere un desiderio che si sarebbe avverato per lui, se fosse realizzabile, perché il più saggio avrebbe formulato senza dubbio il desiderio migliore. Dovevamo riflettere a questo, fino a dopo la cena. Nel frattempo, il Re e la Regina incominciarono a passare il tempo con un gioco. Quest’ultimo assomigliava agli scacchi, ma aveva delle regole diverse. La virtù e il vizio giocavano l’una contro l’altro e si poteva vedere benissimo con quali pratiche il male tende delle trappole alla virtù e come ci si può opporre ad esso. Si svolse in maniera tanto abile e artistica, che sarebbe da augurare che anche noi avessimo lo stesso gioco. Durante il giorno, arrivò Atlante e fece in segreto la sua relazione e il rosso mi montò al viso, perché la mia coscienza non mi lasciava in pace. Poi il Re mi pregò di leggere io stesso la supplica. Il suo contenuto era il seguente: innanzitutto, egli augurava al Re ogni felicità e prosperità e che la sua discendenza si stendesse largamente. Dopo, dimostrava come sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbe dovuto essere liberato, secondo la promessa reale, perché Venere doveva già essere stata scoperta da uno degli suoi ospiti; le sue osservazioni non potevano essere false. Se la S.M.R. avesse fatto fare delle indagini rigorose e diligenti, avrebbe trovato che la sua scoperta era giusta e se questo non era, egli sarebbe rimasto davanti alla porta per tutto il resto della sua vita. Egli chiedeva perciò con umiltà il permesso di assistere alla cena quella sera, a rischio della vita, perché sperava di scoprire egli stesso il malfattore e di ottenere la libertà desiderata. Tutto questo era esposto a lungo e con arte. Io mi rendevo benissimo conto della sua perspicacia, ma essa era troppo penosa per me, e avrei voluto non averla mai vista. Allora, mi venne in mente che si sarebbe potuto aiutarlo per mezzo del mio desiderio, che potevo formulare, e così chiesi al Re se fosse possibile liberarlo con un altro mezzo. “No”, rispose il Re, “perché le cose hanno un significato particolare; però, possiamo forse accondiscendere al suo desiderio per questa sera”. Così egli mandò qualcuno per condurlo lì. Nel frattempo, si preparò una tavola in una sala nella quale non eravamo mai stati prima. Questa sala si chiamava la “Completa” ed era decorata in modo tale che è impossibile per me perfino cominciare a parlarne. Fummo condotti in questa sala con un cerimoniale particolare e solenne. Cupido non era presente questa volta, perché (mi dicevano) era adirato a causa dell’insulto fatto a sua madre. Insomma, la mia azione e la supplica erano le cause di molta tristezza. Il Re esitava nel fare delle indagini fra i suoi ospiti, soprattutto perché anche quelli che non sapevano nulla del fatto, ne sarebbero così venuti a conoscenza. Perciò lasciò al guardiano, che era già entrato, di effettuare le sue rigorose osservazioni, e fece dei suo meglio per ritrovare l’allegria, parlando con noi di diverse cose utili e piacevoli. Non è necessario descrivere la cura e le cerimonie, perché questo non servirebbe al lettore ed è superfluo al mio racconto. Tutto fu eccellente però, e godemmo più dell’arte e dell’abilità umana che non di essere resi pesanti col bere. Fu l’ultimo e il più splendido pasto al quale assistetti. Dopo il banchetto furono tolte le tavole e dovemmo sederci con il Re, la Regina, il vecchio, le dame e le damigelle. Un bel ragazzo aprì il libro magnifico che ho già descritto, e Atlante si alzò in mezzo a noi e incominciò a parlare come segue: “La S.M.R. non ha dimenticato quello che noi abbiamo fatto per lui, né con quale diligenza abbiamo svolto il nostro incarico, e perciò, come ricompensa, ci ha eletto tutti, senza eccezione, Cavalieri della Pietra d’Oro”. Adesso era assolutamente necessario non solo giurare fedeltà un’altra volta alla S.M.R., ma anche giurare di osservare gli articoli seguenti: 1. Signori Cavalieri devono impegnarsi di non assoggettare in nessun momento il loro Ordine a nessun dèmone, o spirito, ma a Dio, il loro solo Creatore e alla sua servitrice, la Natura; 2. Ogni prostituzione, dissoluzione e corruzione sarà odiata da voi: e non contaminerete il vostro Ordine con tali peccati; 3. Aiuterete, per mezzo dei vostri doni, tutti quelli che ne saranno degni e che ne avranno bisogno; 4. Non dovete mai desiderare di usare questo onore per ottenere la magnificenza e la considerazione del mondo; 5. Non dovete desiderare di vivere per più tempo di quello che vuole Dio. Quest’ultimo articolo ci fece ridere a lungo, e sarà senz’altro stato aggiunto per scherzo. Dovemmo comunque giurare sullo scettro del Re; quindi ci si investì Cavalieri con tutta la solennità usuale e, oltre gli altri privilegi che ci furono accordati, ricevemmo il potere di agire sull’ignoranza, la povertà e la malattia. Tutto questo fu confermato in una piccola cappella, dove ci si condusse in processione. Ringraziammo Dio ed io appesi lì in onore di Dio anche il mio Toson d’Oro e il mio cappello, lasciandoli in ricordo eterno. Siccome ognuno dovette scrivere il suo nome, io scrissi così:La scienza più grande è di non saper nulla FRATELLO CHRISTIAN ROSENKREUZ Cavaliere della Pietra d’Oro Anno 1459
Altri scrissero cose diverse, ognuno quello che gli sembrava giusto. Dopo, fummo condotti nella sala dove ci si invitò a sederci ed a decidere in fretta sul nostro desiderio. Il Re, con la sua gente, si era messo nella piccola stanza per ascoltare lì i nostri desideri. Ognuno fu chiamato individualmente nella stanza, e così non posso dir nulla dei desideri di ogni singola persona. Io pensai che non ci sarebbe stato niente di più lodevole che far prova di una virtù, in onore del mio Ordine; trovai anche che non ci sarebbe stato niente di più ammirevole anche se più amaro, che la riconoscenza. Così, malgrado il fatto che avrei potuto chiedere per me qualcosa di più piacevole, trascurai me stesso e decisi di liberare il mio benefattore, il guardiano, anche a costo di mettere in pericolo me stesso. Quando fui chiamato, mi domandarono innanzitutto, siccome io avevo letto la supplica, se avevo riconosciuto il malfattore, o se avevo qualche sospetto su chi poteva essere. Così incominciai senza paura, a raccontare come erano successe le cose e come era capitato a me di peccare per ignoranza, e mi dichiarai pronto a subire tutte le pene che avevo così meritato. Il Re e gli altri Signori furono molto sorpresi da questa confessione inaspettata e mi pregarono di ritirarmi per un momento. Appena richiamato, Atlante mi informò che S.M.R. era molto addolorato di sapere che era capitato a me, che amava più di tutti, di trovarmi in questa situazione sfortunata, ma che non poteva venir meno alle antiche tradizioni, e così non vedeva nessun’altra soluzione che non quella di liberare il guardiano e di mettermi al suo posto. Speravano che un altro avrebbe commesso presto lo stesso peccato, in modo che io avrei potuto tornare a casa. Comunque non c’era da sperare in una liberazione prima della festa nuziale del figlio che sarebbe nato loro. Questa sentenza mi causò una pena quasi mortale, e dapprima maledissi la mia troppa loquacità, che non aveva saputo tacere tutto ciò, ma ben presto mi feci animo e, pensando che doveva essere così, raccontai come questo guardiano mi aveva dato un’insegna e mi aveva raccomandato all’altro guardiano, con l’aiuto del quale avevo potuto sopportare i pesi e partecipare a tutti gli onori e alle gioie che avevamo ricevute. Così, dissi, occorreva dimostrare la mia gratitudine al mio benefattore, e siccome non poteva avvenire altrimenti, io li ringraziavo per la sentenza, e avrei fatto volentieri qualcosa di piacevole per colui che mi aveva aiutato a raggiungere una simile posizione; ma se fosse possibile fare qualcosa tramite il mio desiderio, avrei voluto tornare a casa, cosicché lui fosse liberato da me per mezzo del mio desiderio. Mi si rispose che il desiderio non era realizzabile, altrimenti avrei potuto già desiderare la sua libertà. La S.M.R. era comunque contento che mi fossi comportato così bene in questa situazione, ma temeva che non sapessi ancora in che condizione miserabile mi ero messo a causa della mia audacia. Con questo il brav’uomo finì di parlare e io dovetti ritirarmi tristemente. Gli altri furono chiamati dopo di me e ne uscirono contenti, cosa che mi causò della pena perché immaginavo che avrei dovuto concludere la mia vita a guardia della porta. Mi tormentavo, pensando alle occupazioni che avrei dovuto svolgere, quello che avrei potuto fare ed a come passare il tempo lì. Alla fine, pensai che ormai ero vecchio e secondo le leggi naturali mi rimanevano pochi anni di vita: così questo vivere tristemente e melanconicamente avrebbe portato ben presto alla morte, e sarebbe terminata anche la mia guardia. Io stesso avrei potuto anche lasciarmi portare presto attraverso il sonno più beato alla tomba. Avevo molti pensieri simili. Ogni tanto mi affliggeva il pensiero che avevo visto delle cose tanto belle e che mi dovevano venir tolte. Altre volte ero felice di aver potuto partecipare a tutte queste gioie e che non dovevo ritirarmi con troppa vergogna, e questo era l’ultimo e il più duro colpo che avevo da soffrire. Durante queste riflessioni, gli altri avevano concluso e così, dopo aver augurato al Re e ai Signori le buona notte, ognuno fu condotto al suo alloggio. Io, poveretto, non avevo nessuno che mi accompagnasse e dovetti inoltre subire la derisione ed indossare l’anello che l’altro aveva portato prima, in modo da rendermi conto della mia funzione futura. Finalmente, il Re m’informò che lo vedevo ora per l’ultima volta in quella forma e infine mi esortò di comportarmi in conformità alla mia vocazione e a non agire contro il mio Ordine. Mi prese fra le braccia e mi baciò, cosa che interpretai come segno che all’indomani avrei dovuto assumere la mia guardia. Tutti mi parlarono gentilmente per un po’ di tempo ancora e poi mi diedero la mano, raccomandandomi alla protezione di Dio e fui condotto dai due vegliardi, il signore della Torre e Atlante, in un alloggio splendido, dove si trovavano tre giacigli; ognuno di noi si mise in un letto. Lì passammo quasi due… Qui mancano circa due fogli in quarto, in cui egli (l’Autore di questo libro), mentre pensava di dover assumere all’indomani il posto di guardiano della porta, tornò invece a casa. ]]>Pubblicazione gratuita di libera circolazione. Gli Autori non sono soggetti a compensi per le loro opere. Se per errore qualche testo o immagine fosse pubblicato in via inappropriata chiediamo agli Autori di segnalarci il fatto è provvederemo alla sua cancellazione dal sito