La tradizione alchemica a Napoli. Medioevo e Rinascimento

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di Massimo Marra

Raimondo di Sangro fu, tra le altre cose, alchimista in modo originale, come originale fu il suo apporto creativo alla storia della rituaria e della simbologia ermetica massonica. Di fronte al genio complesso dello scienziato, ermetista e massone, appare arduo stabilire connessioni storiche, identificare radici, precedenti. Eppure anche Raimondo non fu eccezione storica: nutritosi in gioventù alla fonte del Collegio Romano dove l’alchimia, la scienza geroglifica e l’ermetismo kircheriani dovevano aver lasciato in lui una traccia indelebile, egli era cresciuto e viveva in una città con una consolidata tradizione alchemica ed ermetica. Il secolo precedente all’avventura intellettuale ed umana di Raimondo aveva segnato, infatti, lo sviluppo di una fiorente produzione di letteratura scientifica, in cui è facile ravvisare un forte sfondo alchemico ed ermetico. Il principe scienziato e massone si inserisce quindi quale anello finale in una tradizione ricca, una ininterrotta teoria di cercatori ed alchimisti che si dipana a partire dalla leggenda del primo mago fondatore della città, Vergigno mago, il Virgilio mago della tradizione popolare campana, ed arriva ai colti circoli alto borghesi e nobiliari della massoneria cavalleresca settecentesca.
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Pieter Brueghel il Giovane, L’alchimista (dopo Brueghel il Vecchio), c. 1600

Di questa corrente carsica e di difficile percezione, terra di confine tra investigazione scientifica e simbolismo ermetico, tra certezza sperimentale e rivelazione esoterica, non sappiamo molto: quando si pensa all’alchimia a Napoli, ad esempio, si è giocoforza condotti a pensare di primo acchito al De distillationibus ed alla magia naturale di Della Porta, e, subito dopo, al bellissimo percorso simbolico delle statue della Pietatella. Eppure tra questi due termini, ed anche oltre essi, vi è una tradizione ricca ed ininterrotta di cui rimangono tracce sufficienti ed il cui studio deve considerarsi appena iniziato. Senza pretendere di esplorare in dettaglio anche solo gli anelli fondamentali di questa aurea cathena, possiamo provare tuttavia a tracciare a volo d’uccello un quadro generale dello sviluppo della letteratura ermetica ed alchemica a Napoli, identificando alcuni personaggi e passaggi chiave e chiarendo in che modo ed in che misura la città magica assumesse, nel corso della sua complessa storia, quella connotazione culturale che doveva produrre il Gran Maestro Di Sangro. È noto come, tra il XII ed il XIII secolo, la Spagna si trovi ad essere un consolidato centro di traduzioni dall’arabo, un crogiolo dove culture e filosofie trovano spazio per operare scambi e contaminazioni proficue. Le grandi scuole di traduzione fondate al tempo di Alfonso X di Castiglia, il savio, sono laboratori di confronto e fusione tra cultura araba, ebraica e cristiana. Scuole di traduzione come quella di Toledo, sostenuta dall’illuminata mano del vescovo Raimondo, costituiscono centri di raccolta ed elaborazione privilegiati di quel complesso fenomeno di mediazione tra cultura occidentale ed orientale, che costituisce la chiave di volta dell’intera cultura medievale. E’ questo l’ambito che, dopo una veloce gestazione, con le tabuale astrologiche alfonsine e la trattazione alchemica d El Thesoro del Rey Don Alfonso X, partorirà le opere alchemiche che ci sono state trasmesse sotto il nome di Raimondo Lullo e di Arnaldo da Villanova. Ma, all’altro capo del Mediterraneo, un altro centro di raccolta, mediazione e contaminazione agisce in contemporanea: quello dell’Italia meridionale, dove la corte e la guida illuminata dello Stupor Mundi Federico II di Svevia mettono in contatto filosofie e studiosi di diversa formazione e provenienza. Come il progredire degli studi non cessa di confermare, la corte siciliana di Federico II fu una fucina culturale di cui, in questa sede, è assolutamente impossibile riassumere la portata e la valenza. L’eredità culturale araba costituì, alla corte federiciana, il terreno su cui si innestarono i fermenti più fecondi del suo tempo. Già sotto il dominio normanno, grazie a politiche illuminate come quella di Ruggiero II, l’incontro della cultura araba con quella latina e bizantina aveva prodotto un ambiente culturale di largo respiro, dove l’attività di geografi, traduttori e filosofi aveva riprodotto, seppure in tono minore, lo splendore culturale della Toledo medievale. Questa atmosfera, con Federico, si arricchisce ulteriormente e la corte siciliana diviene centro di primaria importanza per la cultura medievale. Mentre fiorisce la poesia della scuola siciliana, la corte diviene nel contempo centro di approfondimento filosofico, medico, alchimistico, astrologico, geografico, matematico. La scienza federiciana fiorisce grazie ad ingegni vastissimi e cosmopoliti, come Michele Scoto, Maestro Teodoro (astrologo, medico, traduttore dall’arabo, filosofo e diplomatico), il matematico Giovanni da Palermo (probabilmente di origine musulmana), il medico e scienziato Pietro Ispanico, il matematico Maestro Domenico, il logico e filosofo Ibn-el-Giuzi, il dotto ebreo provenzale Giacomo Anatoli, traduttore dall’arabo all’ebraico dei commentari di Averroè ad Aristotele e dell’Isagoge di Porfirio. Lo stesso imperatore, per mezzo di una fitta rete di corrispondenze con i maggiori scienziati spagnoli ed orientali, contribuì a tessere la trama di una comunicazione proficua e feconda tra la cultura occidentale, bizantina ed araba. L’Italia meridionale diviene così, nell’immaginario medievale, terra d’elezione di magia ed arti negromantiche. La letteratura tardo-medievale reca tracce evidenti di questa diffusa idea di una terra di magia, dove astrologi, alchimisti e stregoni hanno la loro patria d’elezione. Ad esempio, troviamo quest’idea in un citatissimo passo del trovatore Ruteboeuff che, nella Bataille des VII arts scrive:
De Toulete vint et de Naples qui des batailles sont les chapes a une nuit la Nigromance….
Analogamente, il mago Klinsor del Parzifal di Wolfram von Eschenbach viene fatto nascere in Terra di lavoro e conta Virgilio tra i suoi antenati. Restringendo il nostro campo di indagine esclusivamente alla tematica alchemica e volendo identificare i nomi che maggiormente impressero la propria impronta nella storia successiva dell’alchimia, sicuramente un posto privilegiato spetta proprio a Michele Scoto, l’astrologo di corte di Federico (1190-1235). Traduttore dall’arabo in latino della Sfera di Al-Bitragi, del De Anima aristotelico e del relativo commento di Averroè, egli porta inoltre a termine le traduzioni del commento di Avicenna al De Animalibus di Aristotele, nonché, probabilmente, del Dei Coelo et Mundo col relativo commento di Averroè. Dedicato all’imperatore Federico, egli compose un Liber introductorius, che, diviso in tre parti (il Liber Introductorius, il Liber Particularis e la Physiognomia) rappresenta una delle più complete summae astrologiche e scientifiche del basso Medioevo. Di particolare interesse e risonanza la Physiognomia, che per lo Scoto è “la scienza ingegnosa della natura che permette di conoscere virtù e vizi di ogni animale” e che dunque è importante per osservare “le caratteristiche degli animali e degli uomini”. La scienza fisiognomica di Scoto appare diretta figlia della Fisiognomica dello Pseudo-Aristotele, non priva di influssi provenienti dalle opere dell’arabo Razi e dagli scritti di Pietro D’Abano. L’indagine della natura è argomento privilegiato dell’opera, nonostante in essa l’astrologia sia la tematica di gran lunga principale. In particolare, ampio spazio è dedicato al problema della generazione. Nell’intento di operare una classificazione del sapere, problematica abbastanza presente nella filosofia medioevale di stampo aristotelico, egli compose una Divisio Philosophie, opera probabilmente ispirata ad una analoga opera del Gundisalvi (autore cui dovette avvicinarsi durante il soggiorno spagnolo), a sua volta riferibile ad uno scritto di Al-Farhabi. Ma se nelle opere citate sono rinvenibili diversi riferimenti all’alchimia ed alle concezioni ermetico-alchemiche, tali temi divengono oggetto privilegiato di altre opere specifiche: l’Ars Alchemie ed il Lumen Luminum. Con queste opere, lo Scoto assurge, nell’immaginario dei contemporanei e dei posteri, alla cattedra di maestro sommo, al punto che al suo nome si associano, già pochi decenni dopo la sua morte (avvenuta intorno al 1235), trattati alchemici sicuramente pseudoepigrafici. Tra questi, il più famoso è senz’altro la Questio curiosa de natura Solis et Luna, ormai considerato apocrifo per le frequenti citazioni di autori ed opere di pochi anni posteriori alla morte dello Scoto, come il De Mineralibus di Alberto Magno e la Summa Perfectionis dello Pseudo-Geber. L’alchimia dello Scoto, di chiara matrice araba, attinge alla tradizione dei ricettari medievali attribuiti ad Ermete, ma soprattutto al Liber de Aluminibus et Salibus, opera tradotta in latino già da alcuni anni e che veniva attribuita, per affinità di motivi e di stile, all’arabo Razi. In realtà, in base a più recenti ricerche, l’opera, ascrivibile al XII° sec., nacque probabilmente in ambienti scientifici spagnoli. Altra fonte è probabilmente un Liber Dedali Greci che si conserva manoscritto e di cui si attribuisce la traduzione dal greco allo stesso Scoto, anch’esso in gran parte mutuato dal Liber de Aluminibus. Ma se l’impalcatura generale delle opere alchemiche di Scoto è riferibile alla speculazione scientifica e filosofica araba, un gran numero dei suoi procedimenti sembrano mutuati direttamente da fonti orali, cui lo Scoto fa talvolta riferimento diretto e su cui la storia non ci ha tramandato nulla. Conviene ricordare il ruolo leggendario e magico con cui lo Scoto, degno erede del Vergigno mago tramandatoci dalla trecentesca Cronica di Partenope, è entrato nell’immaginazione popolare, tanto della patria natia, quanto della meridionale terra d’adozione. Lo Scoto era aduso servirsi, per i suoi spostamenti, di un focoso e nero cavallo alato e, per gli ospiti dell’imperatore Federico, più di una volta egli si prodigava con efficaci incantesimi atti a far apparire, in men che non si dica, ricche e stupende tavole imbandite. In questi banchetti, probabilmente, faceva la sua comparsa una delle trovate a nostro avviso migliori dello Scoto, un magico bariletto dal quale il vino non cessava mai di zampillare. Pare però che la magia finisse quando un curioso ruppe il fondo del bariletto per carpirne il segreto, trovandovi solo l’immagine argentea di un angelo che premeva un grappolo d’uva. Interrogato un giorno dall’Imperatore circa la distanza tra il cielo e la terra, dopo una brevissima riflessione, secondo quanto tramanda Fra Salimbene da Adam, rispose con accortezza e saggezza. Interrogato nuovamente il giorno seguente (dopo che il birichino Federico aveva fatto abbassare a bella posta dalle sue maestranze il pavimento della stanza imperiale) egli pare rispondesse che, per quanto ne sapeva, o la terra si era allontanata dal cielo, o il cielo, nottetempo, si era allontanato dalla terra. Con estrema semplicità, egli, per concedere un poco di refrigerio ad un imperatore forse poco aduso alla torrida temperatura del meridione italiano, faceva, con gesti appropriati, scrosciare brevi acquazzoni rinfrescanti. Un cavaliere, concessogli da Federico per difendere il mago da alcuni nemici, in grazia dei servigi resi allo Scoto ne ebbe in regalo terre, ricchezze e una bellissima moglie da cui non tardò ad avere anche dei figli. Un bel giorno, lo Scoto, ritenendo forse di aver già troppo beneficiato il cavaliere, lo rapì in magico volo riconducendolo all’imperatore Federico, dove l’attonito cavaliere scoprì che quelli che gli erano sembrati anni erano, in realtà, pochi minuti, e che moglie, ricchezze e figli erano solo l’illusione indotta dall’abile mago.[1] Ma lo Scoto non fu certo l’unica grande figura intellettuale che la tradizione ci consegna quale maestro d’alchimia assimilabile all’ambiente culturale federiciano: vicino allo stupor mundi vi fu anche, indubbiamente, e con ruolo non certo di secondo piano, Frate Elia da Cortona, più volte citato negli scritti alchemici dello Scoto. Elia Buonbarone, di incerte origini ma probabilmente proveniente da una fascia sociale agiata, era diventato seguace di S. Francesco nel 1211 ed era dunque parte del nucleo storico dei pochi seguaci raccolti intorno al santo agli albori della sua predicazione. Molte fonti ce lo descrivono come assai stimato dal santo (Tommaso Da Celano, nella Legenda Prima afferma che San Francesco amava talmente Elia da “… sceglierlo come madre per sé e come padre per gli altri figli”) ed in stretto contatto anche con il gruppo di Chiara e di sua sorella Agnese. Nel 1217 Francesco lo nomina ministro provinciale in Terra Santa, dove soggiornò per tre anni al seguito dei crociati ricevendo lo stesso Francesco in Siria nel 1219. Dal 1221 è di nuovo in Italia, dove si può tranquillamente affermare che svolga, su delega dello stesso Francesco, le funzioni di direzione ed organizzazione dell’Ordine, divenendo in pratica la massima autorità francescana dopo Francesco. Quando, nel 1227, il poverello di Assisi muore ed alla guida dell’ordine viene elevato Frate Giovanni Parenti, Elia si ritira in Assisi, dove progetta e realizza la grande basilica. Nel 1230, quando Gregorio IX concluse con la bolla papale Quo Elongavi la diatriba tra spirituali e conventuali, Elia, annoverato tra questi ultimi, viene richiamato al vertice supremo dell’Ordine con la carica di Ministro generale, formalizzata nel 1232. Come Ministro Generale, Elia iniziò una politica di espansione e rafforzamento dell’organizzazione e delle risorse dell’Ordine, che porterà il francescanesimo a grande potenza e splendore, ma così facendo si rese ancora più inviso agli occhi dei più intransigenti settori spirituali. Quando, nell’ambito degli attriti tra Gregorio IX e Federico II, Elia, amico di Federico e da questi grandemente stimato, cercò di imbastire una mediazione politica, i suoi nemici lo accusarono di ghibellinismo; egli fu costretto ad abbandonare la guida dell’Ordine e, poco dopo, persistendo nei suoi tentativi, fu scomunicato. Siamo intorno al 1240 ed Elia di lì a poco si avvicinerà ancora di più a Federico, il quale gli affidò tra il 1241 ed il 1242 anche importanti incarichi diplomatici (Elia sarà mandato in ambasceria alla corte di Bisanzio presso Balduino II). Ogni tentativo di riconciliazione fu bloccato dai suoi nemici e, pare, per ben due volte le sue missive di spiegazioni, indirizzate prima a Gregorio IX e poi al successore Innocenzo IV, vennero intercettate senza mai arrivare a destinazione. Elia morirà nel 1253 a Cortona. A frate Elia è attribuita, da fonti a lui contemporanee, una grande erudizione, una strabiliante capacità oratoria e una profonda perizia architettonica. Ma, soprattutto, frate Elia fu alchimista. A lui sono attribuiti diversi sonetti di argomento alchemico, ma soprattutto uno Speculum perfecti magisteri excellentissime artis alkimiae fratris Helie ordinis fratorum minorum…, di cui il Mazzoni, nel 1930, segnalava una probabile versione in volgare in un manoscritto della biblioteca comunale di Siena. L’autenticità dell’attribuzione del trattato, naturalmente, data la consuetudine alla pseudoepigrafia in ambito alchemico, è tutt’altro che certa, ma certa è invece la Chronica di Frate Salimbene da Adam (accolto dallo stesso Elia tra i francescani e da questi difeso contro una famiglia poco incline nel vederlo frate) che dipinge Elia a tinte fosche, come mago ed alchimista di dubbia moralità. Per il Salimbene, tra le innumerevoli colpe di Frate Elia, all’undicesimo posto vi fu quella di occuparsi di alchimia. “Quando sapeva che nell’Ordine vi era qualche frate che nel secolo aveva studiato di quella scienza o ciurmeria, lo mandava a chiamare e lo teneva presso di sé nel palazzo Gregoriano …” scriveva Salimbene. E ancora, in quel palazzo Gregoriano destinato ad accogliere il papa Gregorio nelle sue visite ad Assisi, “… vi erano camere e molti luoghi segreti nei quali Elia albergava quei frati e molte altre persone, ove pareva quasi che si andasse a consultare la pitonessa …”. Nella cronaca di Salimbene, al povero e noto Gherardo da Cremona, venuto ad Assisi per visitare Elia, toccherà rimanere sveglio per tutta una notte, terrorizzato dalle urla dei demoni svolazzanti per le sale del palazzo. Indubbiamente la Chronica di Salimbene è una sicura testimonianza dell’acrimonia che Elia dovette suscitare in parte consistente dell’Ordine. Ma se per i suoi nemici la pratica dell’alchimia è motivo di scandalo, già agli inizi del ‘300 fonti erudite e trattati alchemici lo collocano con ossequio tra i maestri dell’Arte. Nello stesso periodo, e con uguali riferimenti culturali, si formò il corpus di scritti latini attribuiti al cosiddetto Geber Latino. Nel ‘200 l’Occidente era entrato in contatto con il corpus alchemico arabo di opere attribuite a Geber. Il Geber tradotto dall’arabo, sulla scorta di studi approfonditi, non ha nulla a che vedere con il Djabir filosofo (fiorito tra l’VIII e IX secolo), ma è frutto di ambienti ismaeliti e fu redatto intorno al XII sec.. Di questo gruppo di opere, sicuramente apocrifo, particolare risonanza ebbe un Liber de Septuaginta, la cui prima traduzione latina si deve probabilmente a Gerardo da Cremona e che influenzò fortemente molte opere di alchimisti successivi, come ad esempio il Liber de Mineralibus attribuito ad Alberto Magno. Tale corpus diffuse, comunque, la fama del Djabir alchimista che, nell’immaginario del Medioevo latino, entra così a far parte del novero di saggi arabi che, nelle citazioni degli scritti alchemici, andavano ormai ad affiancare i già lunghi elenchi dei filosofi e maestri di tradizione greca. Nasce così il corpus del cosiddetto Geber Latino, un gruppo di opere pseudoepigrafiche che, senza alcun dubbio, furono tra le più influenti del Medioevo latino. Tra queste opere, la più influente in assoluto fu sicuramente la Summa Perfectionis, opera che rivela una sistematicità di esposizione ed una padronanza di fonti non comune per le opere del tempo. Solo da pochi anni gli studi di Newmann spingono a ritenere che l’autore di quest’opera sia un oscuro francescano di Assisi, Paolo di Taranto, cui sono attribuiti alcuni manoscritti di opere la cui somiglianza ed affinità con le opere dello Pseudo-Geber latino hanno proposto all’attenzione degli studiosi l’attribuzione tout-court della Summa geberiana a Paolo di Taranto. Paolo di Taranto fu autore di una Theorica et Practica, in cui si attinge al Liber de voce Bubacaris, opera tradotta dal Kitab-al-Asrar di Razi, e dal già citato Liber De Aluminibus et Salibus. Tali fonti compaiono anche in un’opera (che per ampiezza e sistematicità appare successiva) che reca il titolo di De investigatione perfectionis, attribuita allo stesso Paolo di Taranto. Il materiale di queste due opere, integrato con citazioni per lo più provenienti dal Liber de Septuaginta, si ritrova pressoché immutato nella Summa Perfectionis, che appare così il compimento e l’ordinamento teorico degli elementi esposti in precedenza nella Teorica e nel De investigatione. Su Paolo di Taranto, che secondo alcuni manoscritti “fuit lector fratrum minorum in Assisio”, non abbiamo tracce documentali duecentesche. Il primo documento risale ad un repertorio compilato nel 1325 da un “Frate Dominicus monacus monasteri Sancti Proculi in Bonomia” che recita “Item liber fratris Pauli ordinis minorum qui incipit….”. L’aggiunta, del resto non riscontrabile altrove, della qualifica di lettore appartiene a manoscritti successivi. Da numerosi passi della Teorica traspare una reale conoscenza del territorio tarantino che cancella molti dubbi in merito alla storicità del misterioso frate. Sicuramente, dunque, il nostro Geber proveniva effettivamente dal meridione italiano. Come ad altra zona del medesimo meridione è da ascriversi Cecco D’Ascoli, al secolo Francesco Stabili, nato nell’ascolano intorno al 1269. Troppo lungo e complesso sarebbe soffermarsi in questa sede sulla complessità degli aspetti letterari e culturali dell’opera del grande ascolano ed in particolar modo sulle sue ancora in gran parte inesplorate opere astrologiche. Ricordiamo solo come, in relazione allo specifico della scienza alchemica, alla sua figura si attribuiscano dei sonetti alchemici, assai probabilmente apocrifi, che bastano però ad annoverarlo tra i Padri dell’Arte. D’altronde, la sua opera di gran lunga più nota, l’Acerba, riporta tracce evidentissime, nella concezione della natura e nei presupposti filosofici, dell’impianto alchemico ed astrologico di chiara derivazione araba. Cecco, è l’ennesimo padre eretico di origine meridionale che la tradizione alchemica ha accolto tra le sue fila. Condannato dall’Inquisizione nel 1324, è costretto a lasciare l’insegnamento nello studio bolognese. Pochi anni dopo, nel 1327, dopo un nuovo processo, le cui motivazioni reali sono ancora oggi oggetto di congettura, viene arso vivo. Ma, indubbiamente, il centro principale del progresso degli studi scientifici nell’Italia meridionale, in questo periodo, è Napoli. Tra il XIII ed il XIV secolo, la fama di Napoli come capitale di studi scientifici e filosofici continua a circolare in tutta Europa. A Napoli soggiorna a lungo Arnaldo Da Villanova e vi incontra Raimondo Lullo. La vicina scuola salernitana continua a costituire un riferimento europeo per medici ed investigatori della natura. La tradizione ermetica, alchemica, magica ed astrologica, forma un corpus già imponente e definito quando vi approdano, nella stessa magica Napoli, il Pontano[2] e la sua scuola, fortemente impregnata di naturalismo astrologico. Nel naturalismo pontaniano, la relazione tra l’uomo e l’universo si riveste di una mediazione astrologico-magica che identifica nella natura l’espressione della volontà divina fissata nel cammino delle stelle. Origine prima di ogni cosa è il sole che, attraverso il calore, infonde la vita nel creato. Le stelle governano il destino delle creature sub-lunari attraverso la mediazione dell’Etere, di uno Spiritus fortemente imparentato con la quintessenza aristotelica ed alchimistica[3], in cui si formalizzano i germi e le potenzialità della creazione. Ma questo, in realtà, non rappresenta una frustrazione ed una limitazione della portata e del senso dell’agire umano, che, anzi, proprio attraverso l’astrologia si apre il cammino (attraverso la previsione ed il vaticinium che offrono la possibilità all’uomo di agire e modificare propria manu il proprio destino) verso una rivalutazione ed un’esaltazione dell’azione umana, che contrasta fortemente con la concezione puramente contemplativa di stampo averroista. La natura eterea, sottile, a cui il sapiente rivolge il suo sguardo e la sua contemplazione trasmette dunque all’uomo, affinché questi possa meglio agire, gli avvisi di Dio. Ma non si confonda una tale natura con la natura sensibile e grossolana percepita dai sensi, poiché
… altra è la natura elementare, che è sublunare, varia, incostante, servile e peritura, altra quella eterea, che è immortale e dominante, sebbene essa pure corporea, anche se non soggetta ad alcun cadimento o ad alcuna corruzione. Ma ve n’è anche un’altra, libera da ogni concrezione o corporea condizione, immortale e accessibile solo allo stesso Dio, come quella che, sola, fruisce della divina luce di lui, e assiste ed attende soltanto ai ministerii da lui distribuiti…”[4]
Tra il mondo incorporeo e la natura sensibile, tra natura naturante e natura naturata, vi è dunque la dimensione eterea ed aerea, che contiene i semi della realtà, a cui la contemplazione, la sapienza ed il vaticinio, soli, possono accedere. Precipitato ideologico e culturale dell’elaborazione naturalistica pontaniana si può considerare l’opera del nobile Scipione Capece (1480-1551), signore di Antignano e S. Giovanni a Teduccio, filosofo e giurista, allievo del Pontano, profondamente influenzato dalla predicazione dell’Ochino e dagli scritti mistici del Valdes[5] ed in qualche modo interno all’ambiente valdesiano di Napoli, che non disdegnava il recepimento di influenze luterane[6]. Alla morte del Sannazzaro, l’accademia Pontaniana fu accolta nella sua casa, fino al suo definitivo scioglimento (che coincise con la rimozione del Capece dai suoi incarichi pubblici ed il suo esilio di fatto presso un protettore salernitano) ad opera di Pedro da Toledo, il ferreo Vicerè che vedeva di mal occhio il raggrupparsi degli intellettuali e dei nobili napoletani in conventicole in cui potevano fomentarsi ideologie eretiche e posizioni politiche di opposizione. Nel De Principiis rerum (1546), la visione cosmologica capeciana, prendendo le mosse dal naturalismo pontaniano, si regola su di una visione dell’universo come dispiegamento di una rivelazione divina, in cui non trovano posto le dottrine casualistiche lucreziane, in cui si nega l’atomismo, in cui la materia non può, in quanto creazione, essere eterna ed in cui la stessa teoria aristotelica dei quattro principi (caldo, secco, freddo, umido) viene contestata, dal momento che inaffidabile, per l’autore, è l’identificazione della terra come formata dalle nature fredda e secca (la terra, sottolinea il Capece, contiene palesemente nelle sue viscere la qualità calda). La stessa aria, al contrario di quanto sostiene lo stagirita, è invece palesemente fredda e non può dunque essere formata dall’unione delle qualità calda ed umida. La genesi della creazione, nella visione del Capece, avviene a partire dall’Aria, elemento che contiene le forme potenziali e che sostiene la creazione, l’elemento in cui tutto si crea e tutto si risolve, elemento intangibile a partire dal quale si concretizza ogni corpo. In questo modo, la visione naturalistico-filosofica del Capece affida all’aereo, all’intangibile il seme traslucido della generazione, lanciando lo sguardo del filosofo investigante oltre il confine della corporeità sensibile.
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Adriaen van Ostade, Un alchimista, 1661

Di poco successivo al periodo d’oro dell’Accademia pontaniana è poi la parabola intellettuale del grande astronomo, matematico e, soprattutto, astrologo Luca Gaurico (1476-1558), nativo di Montecorvino Rovella e vescovo di Giffoni ed autore del celebre Tractatus Astrologicus, nonché di vaticini passati alla storia, come la celebre previsione del 1552 della morte del francese Enrico di II Valois durante un’innocua giostra cavalleresca, che sarebbe avvenuta sette anni dopo. Nel 1563, a Venezia, per i tipi del Varisco, si stampava la prima edizione della Scala Naturale[7] del medico di Solofra (un piccolo paese dell’avellinese) Giovanni Camillo Maffei, testo di duratura fortuna, ristampato più volte fino ad una edizione del 1781. Il Maffei fu medico e studioso di grande notorietà nella Napoli della seconda metà del XVI secolo. L’opera, che l’autore dedica a coloro “…i quali non sono dalla terrena voglia tirati in giù, ma spinti in su dal desiderio caldo di sapere” attinge l’impianto cosmologico fondamentale dalla visione aristotelica dominante nella cultura ufficiale del tempo. Il cosmo è diviso in 14 gradi sfere, di struttura concentrica, che portano dalla terra (1° grado) al quattordicesimo, sede del Primo Motore, di fronte al quale “…convien che, come sbigottito, io taccia.”. I primi quattro gradi ricadono dunque nella sfera sublunare e sono i gradi dominati da quattro elementi (terra, acqua, aria e fuoco). In essi avvengono la generazione, la corruzione, la morte, ed in essi si riflette l’influenza determinante delle stelle, che attraverso le sfere governano il destino delle cose sublunari. Tale destino, però, riguarda solo in parte l’uomo, poiché, nella distinzione aristotelica tra anima vegetativa, sensitiva e razionale, solo la prima e, in parte la seconda, ricadono sotto l’influenza delle stelle. La terza, l’anima razionale, è un principio di natura divina e quindi superiore alle stelle stesse. Per tale motivo, l’astrologia giudiziaria è una falsa scienza. Il quinto grado è quello del cielo lunare, dove
… comincia la parte celeste. Né cosa accade la giù laqual non sia qui prima determinata e conchiusa. Di qui nasce la vita a tutti gli animanti… Qui non si fan pioggie o nevi, non si vede corrottion alcuna, non ha dominio la morte, non si contempla altro che sostanze incorruttibili et eterne.
I sei gradi successivi sono tutti dominati da un pianeta (Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno) fino al dodicesimo, il Cielo dello Zodiaco, dominato dalla moltitudine delle stelle. Il tredicesimo, il più vicino al Primo Motore, è invece senza stella alcuna, essendo, evidentemente, dominio dell’Increato[8]. Il primo grado, dominato dalla terra, è quello cui il Maffei dedica più attenzione. Nel grembo della terra, minerali e metalli si formano dall’interazione delle quattro qualità (freddo, caldo, secco, umido) con i quattro elementi. La loro lucentezza e nobiltà dipendono, essenzialmente, dalla purezza e trasparenza della componente acquea del misto. L’Alchimia, cui il Maffei dedica un apposito paragrafo, è una scienza falsa, perché nella gestazione dei metalli
… si richiede il calor celeste come agente universale, si richiede il calor sutterraneo come causa efficiente particolare, e si richiede ancora l’acqua con alcuna parte di terra come materia.
Ora, gli alchimisti, pensano che
… Si come a far l’oro e l’argento naturale concorre l’acqua e la terra come materia, così a far l’oro o l’argento artificiale concorre il Mercurio col’Zolfo, e si come a far quello vi intraviene il calor sotterraneo come causa agente particolare, così a far questo v’intraviene il moderato calor del fuoco, come efficiente particolare.
La sciocca schiera degli alchimisti
… non s’accorge che, né il calor del fuoco, né le vasa, né anco la materia, ponno esser tanto simili a quella della Natura, che non vi sia non picciola differenza per cagion della quale il compimento della massa si risolve in fumo,
lasciando l’alchimista con un palmo di naso.[9] Il Maffei, dunque, nella sua concezione filosofica e cosmologica fa eco all’aristotelismo dominante nella cultura ufficiale Ma l’ambiente culturale napoletano del XVI secolo presenta fortissimi fermenti antiaristotelici, che non potevano non tradursi in una penetrazione più o meno evidente delle idee ermetico-cabalistiche rinascimentali, in una ricerca simbolica ed esoterica le cui tracce sono facilmente riscontrabili nelle produzioni intellettuali del tempo. La rivalutazione dell’eredità platonica e pitagorica in funzione anti-aristotelica ed anti-averroista, l’assunzione della centralità magico-astrologica, della predizione e del Vaticinium nella costruzione dell’umano destino, l’inquadramento dell’uomo in una dialettica universale di relazione con una realtà principiale che, attraverso diversi ed occulti gradi di materialità, discendeva dai principi alla contingenza, non poteva che aprire le porte dell’élite culturale napoletana alla penetrazione dei simbolismi e delle idee ermetico-cabalistiche rinascimentali. Uno dei campi in cui sono immediatamente riconoscibili tracce palesi della diffusione e della importanza delle idee ermetiche è senz’altro il diffondersi, a Napoli più che altrove, di opere dedicate all’ermeneutica simbolica delle Imprese. Si tratta di un filone di opere fortemente intriso di neo-platonismo, che nacque sulla scia dell’interpretazione esoterica dei geroglifici egizi, incominciata dalla circolazione nell’ambiente fiorentino, intorno al 1422, di un manoscritto degli Hieroglyphica di Horapollo, e che ebbe forse, come prodotto più rappresentativo, il famoso libro degli Emblemi dell’Alciati. Il Ruscelli, il Tasso, l’Ammirato, il Capaccio e molti intellettuali del regno si cimentano con tale tematica, poiché, al di là di ogni considerazione esoterico-cabalistica, “… l’Impresa è una filosofia del cavaliere come la poesia è una filosofia del filosofo”[10] Il simbolo, l’emblema, in alcune di queste opere divengono oggetto di un’attenzione che va ben oltre il denudamento di allegorie morali o dei riferimenti mitologici che costituisce il corpo principale delle opere. La portata chiaramente esoterica dei simbolismi analizzati è prospettiva ben chiara nell’approccio degli autori, come ad esempio nei seguenti passi del Capaccio[11], tratti dal Delle Imprese (Napoli, 1592):
… essendo l’impresa un’espressione del Concetto, sotto Simbolo di cose naturali … ma dalla propria naturalezza, quasi come col vapore il Sole, elevandole da palustri e troppo bassi segni, ad esprimere il più occolto pensiero della superior portione … Ma se degli huomini, con lunga prattica et a pena i cenni, i segni, l’attioni esteriori, infino al moto delle dita di quegli antichi Histrioni conoscer non si ponno, come non serà che malagevolmente, possiamo intendere il concetto che, in quelle tenebre Platoniche nascosto, ove con intellettual silenzio l’intelletto produce…
Il simbolo, l’emblema, sono dunque la veste attraverso cui gli insegnamenti di una tradizione cabalistico-pitagorica assunta a prisca theologia, a religione originaria, serba agli eletti il più occolto pensiero della superior portione. Infatti, per il Capaccio
… Hanno i Simboli origine da quell’antichissima Theologia, la qual non volse che nelle corrotte parole, come scrive Lisi Pittagorico ad Hipparco, i divini precetti, quasi limpidissima acqua in un torbido pozzo infondendo, fussero contaminati nel proprio candore. Per il che, gli antichi Poeti, le cose divine e naturali dentro a certe fintioni di favole andarono involgendo…
Altrove il Capaccio specifica ancora che esistono diverse forme di questa comunicazione sacra e simbolica:
… come i cabalisti con numeri, così gli Egittii con gli animali significavano; e così con gli Uccelli le cose aeree, con Serpenti le terrestri, come col capo del Leone le cose superiori e col resto del corpo l’inferiori voleano darci ad intendere. Onde non rinchiudo tra questi quegli altri modo di geroglifici che da una recondita filosofia cabalistica nascono, di cui brevemente, ma con illustre gravità scrisse quel Giovanni Dee da Londino[12].
Il richiamo al pitagorismo si fonde dunque con quello alla religione egizia e a forme di cabala di cui l’autore si mostra, comunque, informato; Pitagora ha appreso molto dalla filosofia ebraica ed è stato l’iniziatore in occidente, insieme a Platone, della comunicazione simbolica e geroglifica[13]. Ma se l’ermeneutica delle Imprese costituisce una traccia evidente dell’importanza e del ruolo dell’ideologia ermetica nella cultura napoletana del tempo, ancor più palesi sono le tracce rinvenibili nell’ampia fioritura che lo studio e la pratica dell’alchimia avrà nell’ambiente napoletano a cavallo tra ‘500 e ‘600. E’ indubbiamente nell’ambito del vivido ambiente delle Accademie, che tra il XVI ed il XVII secolo animò l’Italia intera, che lo studio della natura conosce a Napoli una fioritura di grande rilevanza. Nelle Accademie dei Segreti, degli Ardenti, degli Oziosi, degli Incauti, degli Incogniti ed in uno sterminato numero di cenacoli, a volte effimeri, i colti patrizi e gli intellettuali napoletani davano vita a dispute filosofiche, astrologiche, naturalistiche, letterarie. Di una di queste accademie ci rende una testimonianza (arricchita da contenuti chiaramente simbolici) Girolamo Ruscelli[14]nel Proemio all’edizione del 1567 dei suoi Secreti, proemio non reperibile in altre edizioni della stessa opera. Quando io habitava nel Regno di Napoli, pochi anni innanzi ch’io venissi a Venetia, in una illustre città di quella provincia, trovandomi nella compagnia di XXIIII persone particolari, Et con esse il Principe et signor della terra, si diede principio ad una onorata Academia Filosofica, la qual per molti degni rispetti volsero che fusse et si chiamasse Secreta[15], la quale andò tuttavia procedendo felicemente di bene in meglio… Primieramente noi fummo XXIIII compagni particolari, tre Signori et capi nostri, cioè il Principe Signor della Terra, un suo parente et un ministro, che tutti insieme eravamo al numero di XVII. Nell’accademia del Ruscelli, tutti i saperi e le culture sono rappresentate. Dei 24 compagni particolari, infatti
… sette erano Cittadini nativi della città propria, sette di diversi luoghi d’Italia, sette Oltramontani di diverse Provincie, uno Schiavone, un Greco et uno Ebreo di Salonichi, vecchio, et che più volte era andato di Levante in christianità.
Il carattere alchemico dell’accademia era testimoniato anche dalla scelta degli assistenti. Racconta infatti il Ruscelli che, oltre agli uomini di fatica
… Avevamo poi per ministri et serventi due spetiali, due Orefici, due profumieri, un dipintore, quattro erbolari et Simplicisti intendenti.
L’Accademia si riuniva in seduta collettiva settimanale in una speciale casa, appositamente costruita dal Principe, bellissima così di dentro come di fuori, che gli Accademici avevano risolto di chiamare Filosofia. E, naturalmente, la costruzione era dotata di tre piani, tre porte di ingresso e tre scale per i piani superiori.[16] Scrive il Ruscelli:
L’intention nostra era stata primieramente di studiare et imparare noi stessi[17], non essendo studio né altro essercitio alcuno che più sia vero della filosofia naturale, che questo di far diligentissimo inquisitione, et come una vera anatomia delle cose et dell’operationi della Natura, in se stessa.
Con una ricostruzione priva di sostanziali prove documentali ma suggestiva ed assai verosimile, l’Eamon[18] suppone che l’accademia del Ruscelli si riunisse nel decennio tra il 1543 ed il 1552 ed identifica il misterioso principe del Ruscelli con Ferrante Sanseverino, principe di Salerno, accanito rivale di Pedro da Toledo ed in continua trama per spodestare il Vicerè di Napoli. In quel decennio, per quel che ne sappiamo, il Ruscelli era effettivamente a Napoli al servizio di Alfonso D’Avalos, politicamente vicino al Sanseverino. In considerazione del periodo di ipotetica attività, sostiene l’Eamon, alle riunioni avrebbero potuto assistere anche i giovani fratelli Della Porta. L’accademia Segreta del Ruscelli, dunque, potrebbe essere il primo segno della segreta riunione di alchimisti e studiosi in accademie di contenuto specificamente alchemico. Nel XVI secolo, tra il naturalismo immanentista del Telesio e la magia del Della Porta e di Bruno, è a Napoli il medico ed alchimista Fioravanti. A poca distanza, a Scisciano, l’Allegretti, l’astrologo ed alchimista amico del Varchi e del Cellini, compone il De la trasmutatione de’ metalli. Il crogiolo alchemico e filosofico della città continua incessantemente ad ardere, tramandando una tradizione di studi naturalistici e filosofici che ne fa uno dei centri culturali di maggiore interesse in Italia. Cosciente di ciò è anche il viceré Pedro da Toledo, che commissiona al toscano Benedetto Varchi la Questione dell’Alchimia,che riprende e riassume i toni e le evoluzioni del dibattito sulla scienza alchemica fino ad allora sviluppatosi[19].

Note

[1] Di queste leggende, con relativi rimandi bibliografici, si trova menzione nei Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo di Arturo Graf (Torino 1925, ristampato da Mondadori nel 1984). Un’altra leggenda, particolarmente macabra, riguarda la morte dello Scoto ed è indicativa della considerazione di estatico ed illuminato di cui lo Scoto dovette godere nell’immaginario collettivo. Nel Chimica filosofica overo problemi naturali sciolti in uso morale (Messina 1696) il gesuita siciliano Chiarello, in un capitolo iniziale consacrato all’estasi, racconta: “… Tal era infine il celebratissimo Scoto, che per fama … e per testimonianza di gravi scrittori … estatico restava sovente nelle sue speculative contemplazioni a sì gran modo, che sembrava non haver più vita; e sì lungamente un dì in simile accidente durò, che gli celebrarosi l’esequie, e’l seppellirono come già morto, benchè né tal era, né fu, se non quando rinvenuto e rimesso in sensi, dié forte col capo, e se’l fracassò nella lapide del sepolcro …”. [2] Sul Pontano e le sue idee ermetiche e astrologiche, vedi, recentemente, in forma sintetica, Patrizia Calenda, I trattati astrologici di Giovanni Pontano, in AA.VV., Le terre della Sibilla appenninica, antico crocevia di idee, scienza e cultura, Montemonaco, 1999, pp. 135 – 144, e la relativa bibliografia. Il Pontano fu anche in contatto col cardinale e cabalista cristiano Egidio da Viterbo (1472-1532), cui dedicò il dialogo Aegidius. [3] Il portatore di questo spiritus, di questa essenza celeste, per il Pontano è Giove, sotto il cui auspicio, con ogni evidenza, Gioviano stesso pone se stesso ed il suo nome. [4] Dalla traduzione dell’Aegidius di Vincenzo Grillo, posta in appendice a G. Toffanin, Giovanni Pontano tra l’uomo e la natura, Zanichelli, Bologna 1938. [5] Sull’influenza e lo sviluppo dell’ambiente facente capo a Juan De Valdes, sulla predicazione di Ochino a Napoli, vedi P. Lopez Il movimento valdesiano a Napoli, Napoli, Fiorentino editore, 1976. [6] La diffusione del luteranesimo e la tensione riformista nel viceregno, a parere degli storici, pur presentando fermenti interessanti, non raggiunse il grado di esasperazione che raggiunse in alcune zone del nord. Non è improbabile, d’altronde, che un fenomeno del genere sia in relazione con la debolezza dell’Inquisizione nel vicereame. Questa, in virtù della ferma opposizione della nobiltà locale, non riuscì mai ad avere una forza stabile ed una presenza sostanziale e continua. Un’interessante testimonianza della diffusione del luteranesimo a Napoli è contenuta nei Costituti di don Pietro Manelfi. Vedi l’edizione curata da Carlo Ginzburg, I costituti di don Pietro Manelfi, Firenze, Sansoni editore, 1970, pp. 68-69. [7]Scala naturale overo fantasia dolcissima di Gio. Camillo Maffei da Solofra intorno alle cose occulte e desiderate nella filosofia Venezia 1563. Il Thorndike (A history of magic and experimental sciente, Columbia University Press, 1960) avvicina, indubbiamente per la struttura concentrica dell’universo del Maffei, quest’opera alla Composizione del Mondo di Ristoro d’Arezzo. [8] I Gradi del Maffei, con le 14 sfere così ordinate, ricalcano fedelmente una consolidata tradizione cosmologica medievale, associata alla visione tolemaica, a quel tempo ampiamente e comunemente accettata dall’aristotelismo dominante. [9] La superiorità e l’inimitabilità delle operazioni della natura sono un topos, di derivazione avicenniana, delle critiche all’alchimia già a partire dal Medioevo. [10] Questa definizione è tratta da Il Rota, overo dell’Imprese, dialogo del S. Scipione Ammirato nel qual si ragiona di molte imprese di diversi autori e di alcune regole et avvertimenti intorno a questa materia, Napoli 1562. Si tratta di un dialogo, dedicato a Berardino Rota dall’Ammirato, in cui, oltre al Rota, intervengono il nobile Alfonso Cambi Importuni, l’alchimista e medico Bartolomeo Maranta e Nino De Nini vescovo di Potenza. L’opera descrive, tra l’altro, la grande popolarità che l’ermeneutica delle imprese dovette raggiungere nell’ambiente napoletano, al punto, stando a quanto rappresenta il dialogo, da coinvolgere, oltre a nobili ed intellettuali, perfino gli strati popolari. [11] Giulio Cesare Capaccio (Campagna D’Eboli 1552 – Napoli 1634) fu intellettuale fertile, che affiancò interessi teologici, letterari, storico-archeologici e politici, ricoprendo nel contempo cariche pubbliche e diplomatiche nel viceregno, che gli costarono, probabilmente, periodi di disgrazie e persecuzioni. [12] Si tratta, ovviamente, di John Dee (1527 – 1608), il celebre mago elisabettiano, dalla cui opera il Capaccio trae addirittura un diagramma magico-cabalistico, riprodotto nel Delle Imprese. Non stupisca l’interesse dell’ambiente intellettuale napoletano per l’ermetismo e la cabala rinascimentali. Si tenga presente che, calabrese di nascita, era il cappuccino Annibale Rosseli (1525-1592), autore di quello che più volte è stato definito il più completo tentativo di conciliazione teologica tra ermetismo e cristianesimo, il Divinus Pymander Hermetis Mercurii Trismegisti cum commentariis (1630). Il Rosseli fu, alla corte praghese, il confessore di John Dee. Non è improbabile, inoltre, che la cabala cristiana fosse arrivata a Napoli attraverso gli scritti del celebre frate, umanista e cabalista insigne, Egidio Da Viterbo, che, come abbiamo già detto, fu tra i riferimenti culturali del Pontano (vedi F. Fiorentino, Egidio da Viterbo e i Pontaniani di Napoli, in Archivio storico delle Provincie napoletane, 1884, pp. 430-452). Per le concezioni cabalistiche di Egidio Da Viterbo vedi anche E. Da Viterbo, Scechina (1530) Edizione critica del manoscritto inedito a cura di F. Secret, a cura del Centro Internazionale di Studi Umanistici, Roma 1959. Ancora, per quanto riguarda l’interesse del Capaccio per la cabala, si tenga inoltre presente che egli fu allievo di un Girolamo Casella da Nola, erudito gesuita esperto di testi siriaci ed ebraici. [13] Il Capaccio riprenderà queste tematiche in un’opera posteriore, il Principe (Venezia 1620), dichiaratamente ispirata agli Emblemata dell’Alciati. [14] Girolamo Ruscelli (1504-1566) fu uno tra i poligrafi cinquecenteschi più universalmente noti che si siano occupati di alchimia. L’opera di gran lunga più fortunata della sua copiosa e varia produzione letteraria sono proprio i Secreti che egli scrisse sotto lo pseudonimo di Alessio Piemontese e che, tra ‘500 e ‘600, ebbero decine e decine di edizioni in italiano, latino, tedesco, francese e inglese. [15] Più innanzi il Ruscelli ribadisce: “… tal nostra compagnia si chiamava e si teneva SECRETA… nella nostra compagnia era ordine et giuramento che niuno potesse nominarla né farne motto con alcuna persona, se prima non se ne havesse licenza dalla Compagnia, ove però non usavamo ballottazioni, che si convengono solamente a Repubbliche et a Principi, ma così a bocca piacevolmente dicendosi da ciascuno il parer suo”. [16] La casa filosofica del Ruscelli riproduce il ternario ermetico dei tre corpi sottili dell’uomo, il ternario del Tribikos alchemico, che, insieme al corpo saturnino, materiale, forma il composto quaternario umano.Vedi, in forma sintetica, il ns. Del corpo filosofale, in AA. VV., Il Fuoco che non bruciastudi sull’alchimia, a cura di Massimo Marra (Mimesis, Milano, 2009), pp. 21-48. [17] Lo studio di sé stessi era la finalità dichiarata dell’Accademia degli Incogniti, una delle accademie napoletane oggetto della repressione del viceré Pedro da Toledo. [18] W. Eamon, La scienza e i Segreti della Natura, Genova, ECIG, 1998, pp. 222-241. [19] Sulla Questione sull’alchimia di Varchi vedi lo studio di A. Perifano, in Chrysopoeya, tome I, 1987, pp. 181-208 Benedetto Varchi et l’alchimie. Une analyse de la Questione sull’alchimia.
Tratto da: https://aispes.net/biblioteca/ars-regia/la-tradizione-alchemica-a-napoli-medioevo-e-rinascimento/]]>

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