Durante due giorni di combattimenti intensi, le forze dell’Asse si avvicinarono pericolosamente alla vittoria, dimostrando grande coraggio sia da parte degli italiani che dei tedeschi. Tuttavia, la potente superiorità di fuoco degli Alleati, grazie al loro indiscusso dominio dell’aria e del Mar Mediterraneo, che in passato era conosciuto come Mare Nostrum, consentì loro di respingere l’attacco italo-tedesco. Nonostante gli statunitensi stessero già pianificando il ritiro, riuscirono a consolidare la testa di sbarco e a garantire l’occupazione completa della Sicilia. In quel contesto, il valore e la fortuna non mancarono, ma ciò che mancava erano i mezzi adeguati per i difensori.
Questo estratto che segue è tratto da un articolo del Tenente Colonnello Giovanni Iacono, in servizio presso il Comando per la Formazione, Specializzazione e Dottrina dell’Esercito, pubblicato nella Rassegna dell’Esercito, numero 6, novembre-dicembre 2014.
Tra l’11 e il 13 maggio, le truppe alleate sferrarono l’offensiva finale in Tunisia, che portò alla resa della Armata corazzata tedesca del Generale von Arnim e della 1a Armata
italiana del Generale Messe.
In totale, l’Asse aveva perso 250.000 soldati, ben addestrati e perfettamente equipaggiati (1).
Soldati che con l’esperienza di combattimento maturata sul fronte africano avrebbero potuto attivamente contribuire alla difesa del territorio metropolitano e della Sicilia in particolare.
Quando ormai la campagna in Africa volgeva alla conclusione,la pianificazione dell’operazione
«Husky» subì un’accelerazione e fu stilato il piano definitivo per l’invasione, che tra l’altro prevedeva, in fase preliminare, anche la conquista delle isole di Lampedusa e di Pantelleria. In questa stesura definitiva, il piano prevedeva che i settori di sbarco dell’8a Armata britannica e della 7a Armata statunitense si sviluppassero quasi senza soluzione di continuità sulla cuspide meridionale dell’isola, su un fronte quasi continuo di circa 170 chilometri; venne inoltre fissata la data e l’ora per lo sbarco: il 10 luglio alle ore 02.45.
Secondo questo piano, compito Armata, comandata dal Generale Montgomery, era
quello di spingersi a nord occupando in successione, Siracusa, Augusta e Messina, per intrappolare nell’isola il maggior numero possibile di truppe dell’Asse.
La 7 dell’intera 8a Armata del Generale Patton avrebbe solamente svolto un compito di copertura del fianco sinistro dell’8 Armata.
In totale gli Alleati, come scrive Alberto Santoni, si accingevano a impiegare per l’invasione
della Sicilia inizialmente 181.000 uomini, di cui 115 000 britannici e 66.000 americani, nonché 600 carri armati, 14.000 automezzi, 1.800 cannoni e 3.462 aerei, di cui solo 2.510 efficienti e impiegabili operativamente; di questi furono impiegati soltanto 670 velivoli per il supporto diretto alle operazioni terrestri.
In totale, nelle fasi finali dell’operazione «Husky» furono impiegati circa 478.000 uomini, di cui 250.000 inglesi e 228.000 americani (2).
LO SBARCO ALLEATO E LE PRIME REAZIONI DELL’ASSE
Nella notte tra il 9 e 10 luglio 1943 venne attuato il più grande sbarco anfibio mai tentato fino ad allora, impiegando nel solo settore di costa compreso tra le città di Gela e Scoglitti (Sicilia sud-orientale), 580 navi da guerra e da sbarco, oltre a 1.124 mezzi anfibi, che sbarcarono due intere Divisioni (la 1a a Gela e la 45a a Scoglitti, per un totale di circa 40.000 uomini suddivisi in 27 battaglioni).
Gli sbarchi nel settore del 134° reggimento
L’urto iniziale fu sostenuto da 5 battaglioni delle unità costiere (XVIII Brigata costiera). Alle 02.55 il Comandante del CDXXIX battaglione costiero, Maggiore Rabellino, segnalava parecchie imbarcazioni nemiche che muovevano in direzione di Senia Ferrata; le artiglierie costiere, che fino ad allora non avevano sparato a causa della loro gittata non
adeguata, aprirono il fuoco sulle imbarcazioni in avvicinamento, svelando così le proprie posizioni. Subito iniziò il bombardamento navale della costa a copertura delle operazioni di sbarco per annientare le batterie costiere.
La reazione italiana fu immediata: il Generale Guzzoni, ricevute le prime notizie di lanci di paracadutisti alle 01.10 del 10 luglio, diede ordine di cambiare lo «stato di allerta» in «stato di allarme» e alle 01.50 ordinò il brillamento dei pontili di Gela e Licata (3).
Alle 03.05 vennero segnalati i primi sbarchi a Senia Ferrata. Alle prime luci dell’alba del 10 luglio (ore 03.37) il Maggiore Rabellino comunicò che il nemico cercava di sbarcare sulla destra del pontile di Gela.
Ma i soldati del CDXXIX battaglione costiero non avrebbero ceduto molto facilmente. I rangers infatti dovettero battersi per conquistare ogni bunker e ogni trincea. Il fuoco incrociato delle mitragliatrici sulla spiaggia era intenso, tanto che una compagnia di pionieri perse un intero plotone. La tenacia dei difensori fu testimoniata dal numero di caduti
del CDXXIX battaglione costiero che toccò la cifra di 197 tra morti e feriti, cioè il 45 per cento degli effettivi (4).
Alle 04.10 il Maggiore Rabellino comunicò che il nemico era riuscito a sbarcare e che vi
erano infiltrazioni dal lato del belvedere di Gela.
Infatti, sopraffatte le difese sulle spiagge, alcuni plotoni di rangers avanzarono rapidamente nella città, dove si accesero immediatamente aspri combattimenti.
Sul corso principale, un nucleo di Carabinieri che vigilava sul centro della città (buona parte della città era stata evacuata la mattina precedente) sorprese i rangers.
Iniziarono subito a sparare sui nemici, che colti di sorpresa ripiegarono temporaneamente
per riorganizzarsi e occupare posizioni più favorevoli. Nel frattempo sopraggiunsero
altri americani, ma a dare man forte ai Carabinieri arrivarono alcuni giovani gelesi. Dopo circa due ore di combattimenti i Carabinieri, esaurite le munizioni, vennero circondati e quindi sopraffatti, mentre i giovani gelesi accorsi in loro aiuto riuscirono a rifugiarsi sul campanile della chiesa madre, da dove continuarono a resistere lanciando bombe a mano.
In una viuzza nei pressi di piazza Umberto, il Tenente Lembo, del CDXXIX battaglione costiero, alla testa di un gruppo di soldati ostacolava l’avanzata dei rangers. Ma il nemico era troppo numeroso, e uno dopo l’altro i suoi uomini caddero o fuggirono.
Il Tenente, rimasto solo, uscì allo scoperto affrontando gli attaccanti con una pistola mitragliatrice, finchè non cadde ucciso.
Quando cominciò ad albeggiare, la resistenza si era di molto affievolita, ma dal campanile della cattedrale e dal bunker dell’arco di Porta Marina si continuava a sparare.
Nel bunker dell’arco di Porta Marina, il Caporal Maggiore Cesare Pellegrini (Medaglia di Bronzo al Valor Militare alla Memoria), rimasto da solo con la mitragliatrice, continuava a resistere da quattro ore, inchiodando il nemico sulla battigia. Come ci racconta Nunzio Vicino nella sua opera, il nemico è costretto a sospendere le operazioni di sbarco lungo il tratto di spiaggia in cui agisce il Caporal Maggiore Pellegrini con la sua mitragliatrice.
Numerosi sono i corpi dei nemici sulla spiaggia. Fino a quando una pattuglia di rangers,
guidata da un graduato di colore non lo circonda, il Pellegrini rifiuta di arrendersi, fedele
al giuramento di difendere fino all’estremo sacrificio il suolo patrio
dall’invasore, ma la pattuglia di rangers si è fatta ancora più sotto e il graduato di colore, penetrato all’interno del bunker, lo pugnala alle spalle (5).
Già dalle 06.00 le poche sacche di resistenza erano circondate e il Tenente Colonnello Darby, Comandante dei rangers, riferiva al Generale Patton che il loro obiettivo era raggiunto; ma di lì a poco si sarebbe trovato ad affrontare gli intrepidi uomini del gruppo mobile «E», provenienti da Niscemi.
Intanto, in base agli ordini ricevuti, il Generale Conrath, che dal 9 luglio si trovava con la sua Divisione «Hermann Göring» nell’area di Caltagirone, decise di avanzare su due colonne. La colonna corazzata di destra raggiunse Case Priolo alle 13.30, e impegnò in combattimento il II battaglione del 16 Regimental Combat Team statunitense (1ath Divisione). La colonna di sinistra, in particolare la Compagnia carri «Tigre», ebbe maggiori difficoltà, in quanto diverse volte i carri rimasero bloccati nelle strette stradine dei paesi attraversati (6). Superato il ponte sul Dirillo, questa colonna venne bloccata dall’attacco del I battaglione del 180 Regimental Combat Team americano(45ath Divisione) e perse i contatti con la Divisione.
A metà pomeriggio, questa colonna riprese i contatti col Comando di Divisione e rinnovò l’offensiva contro il I battaglione del 180 Regimental Combat Team statunitense lungo la valle del Dirillo, riuscendo a catturare diversi prigionieri, tra cui il Comandante
del battaglione americano, Colonnello Schaefer.
Ma grazie al provvidenziale intervento del III battaglione del 180th Regimental Combat Team, che attaccò sul fianco la colonna di sinistra, le sorti della battaglia furono salvate
e i tedeschi furono costretti a ritirarsi (7).
Il III battaglione del 33° reggimento fanteria della Divisione «Li-vorno», dislocato nei pressi della stazione di Butera, col compito di fungere da riserva alla XVIII Brigata costiera, alle 04.37 ricevette l’ordine di muovere verso Monte Poggio Lungo. Alle 08.10 circa,
elementi nemici, stimati in circa due Compagnie, raggiunsero le pendici sud di Monte Poggio Lungo, mentre il III battaglione del 33° reggimento, comandato dal Tenente Colonnello Bruni, raggiungeva quasi contemporaneamente le pendici nord.
Alle 08.45 le posizioni del III battaglione del 33° venivano attaccate incessantemente dal fuoco dell’artiglieria nemica. Per tutta la mattinata, il Tenente Colonnello Bruni cercò di contrastare le due compagnie di rangers americani che si trovava di fronte e che manovravano tre cannoni italiani catturati, ma senza risultati apprezzabili.
Alle 11.30, dopo aver subito ingenti perdite, il Tenente Colonnello Bruni si trovò a dover affrontare la contromanovra dell’avversario e dovette quindi ripiegare sui capisaldi di Poggio della Femmina e di Monte del Falcone.
Alle 05.40 il Generale Mariscalco, Comandante della XVIII Brigata costiera, ordinava al gruppo mobile «E», dislocato a Niscemi, di muovere su Gela, per intervenire in aiuto del Comando del CDXXIX battaglione costiero ormai circondato.
Particolarmente significativa è la testimonianza di Bruno Causin, allora Caporale artigliere della 9 batteria del 54° reggimento artiglieria «Napoli», facente parte del gruppo mobile «E»(8): «Arrivammo all’altezza dell’aeroporto di Ponte Olivo che era giorno.
Gli americani erano già sbarcati e avevano occupato il paese.
Il Comandante della batteria era andato come al solito avanti per vedere il posto dove schierarci coi cannoni. Aveva destinato il punto dove andare, ma al di qua del paese di Gela, gli americani avevano già sistemato una batteria da 105 mm. Tornò quindi indietro, ci diede i dati di tiro mentre eravamo ancora lungo la strada e io li segnai sul goniometro, che essendo piccolo tenevo sempre in tasca. Come siamo andati in posizione abbiamo sparato una salva di batteria, colpendo la batteria americana col primo
colpo. Ricordo che l’aiutante mi raccontò che aveva visto l’inferno scatenarsi sulla batteria nemica, soldati morti, cannoni rovesciati.
Dopo continuammo a sparare per coprire l’avanzata della Fanteria. Ma non appena intervenne la marina … mamma mia….
Ci arrivò addosso un inferno di fuoco e acciaio. I colpi ci passavano sopra, però qualcuno
arrivò anche a 40-50 metri dalla nostra posizione, ricoprendoci letteralmente
di terra, ma noi continuammo a sparare fino alle 10.30-11.00, e ricordo che il sole ci bruciava».
Alle ore 07.30 la 155 compagnia bersaglieri prendeva contatto con il nemico all’altezza del
passaggio a livello sulla rotabile Niscemi-Gela (SS 117), e qui venne bloccata dall’intenso fuoco dell’artiglieria navale nemica.
Contemporaneamente la 2a compagnia del CII battaglione controcarri si schierava a dare
supporto diretto alla compagnia bersaglieri, ma avanzando si ritrovò a meno di trecento metri da posizioni nemiche situate tra le abitazioni, che fino a quel momento non si erano ancora svelate.
Fu quindi fatta segno a fuoco da parte dei mortai e delle artiglierie leggere nemiche che distrussero diversi pezzi e causarono parecchie perdite, tra cui il Sottotenente
Bazzoli Righini, che cadde colpito a morte mentre, incurante del violento bombardamento,
continuava imperterrito le operazioni di preparazione del tiro.
Il Tenente Colonnello Conti diede allora l’ordine alla compagnia carri di attaccare, in modo
da sfondare la linea avversaria. I tre plotoni carri comandati dal Capitano
Granieri attaccarono a ondate successive. Il Tenente Colonnello Darby vedendo avanza-
re i carri chiese l’intervento dell’artiglieria
navale, ma questa non fece in tempo ad aggiustare il tiro che i carri erano già penetrati all’interno della città. Superati gli sbarramenti anticarro e penetrati per le vie di Gela, i plotoni eliminavano i centri di fuoco che si manifestavano lungo la strada, cercando di neutralizzare quelli che si erano annidati all’interno delle case .
Ecco come Hugh Pond descrive la scena nel suo libro: «I carri sparavano senza fermarsi, facendo roteare le torrette e rovesciando proiettili su tutti i bersagli possibili, con un’audacia che destò l’ammirazione persino degli spericolati rangers» . La battaglia durò a lungo; il nemico, nonostante avesse una superiorità numerica in uomini e mezzi, venne a trovarsi in seria difficoltà. Due carri penetrarono fin dentro l’abitato.
Alle 08.30 uno dei carri, quello del Tenente Navari che, incurante del fuoco di cui era fatto oggetto, era riuscito a penetrare fino a piazza Umberto I, dove aveva sede il Comando americano. Le strade, prima gremite di soldati americani, i fecero deserte e il nemico
credette che la presenza di quel carro annunciasse l’imminente arrivo delle forze italiane che stavano contrattaccando.
Il Tenente Colonnello Darby, Comandante dei rangers, si trovò di fronte questo carro che avanzava verso di lui sparando all’impazzata,
incurante della reazione nemica. Afferrato un bazooka, gli sparò contro un razzo,
ma mancò il bersaglio. Ricaricò il bazooka e questa volta colpì in pieno il carro, immobilizzandolo. Il Tenente Navari uscì dalla torretta del carro con la pistola in pugno, ma venne centrato da un colpo di fucile alla fronte (sarà ricompensato con la medaglia d’Argento al Valor Militare alla Memoria).
L’altro carro, con a bordo il Carrista Antonio Ricci e il Sergente Cannella, avanzò all’interno del centro abitato. A un certo punto, vicino a Porta Caltagirone, visto
che l’abitacolo era pieno di fumo per gli spari del cannoncino e della mitragliatrice, si fermò per orientarsi prima di procedere con la marcia. Il Sergente Cannella era sotto shock, scese allora il Carrista Ricci, ma non appena saltò fuori dal carro venne ucciso dalle schegge di alcune granate lanciate contro di loro. Il Sergente Cannella ripartì rabbiosamente verso il centro cittadino, ma, superata Porta Caltagirone, investito da un diluvio di fuoco, fu costretto a ritirarsi e tornò indietro verso la piana di Gela. Poco prima di uscire dall’abitato venne centrato da un cannone anticarro.
Commovente è la scena descritta da Augello nel suo libro:
«Le lamiere rimangono squassate, il carro fuma come una pentola a vapore.
Da quella ferraglia contorta emerge stordito, ma vivo, il Sergente Cannella. Barcolla in
mezzo alla strada, mentre qualche gelese alla finestra gli batte le mani commosso e una giovane donna esce di casa soccorrendolo, abbracciandolo. Davanti a questa scena anche i militari americani, che lo hanno colpito, dopo qualche esitazione gli vanno incontro e gli stringono la mano, prima di farlo prigioniero» .
Alle 11.00, constatata l’impossibilità materiale di mantenere le posizioni raggiunte, dopo aver subito pesanti perdite e trovandosi ancora sotto l’incessante martellamento
dell’artiglieria navale (tra le 08.00 e le 12.55 le navi da guerra americane spararono 572 colpi di grosso calibro solo sul gruppo mobile), il Tenente Colonnello Conti dovette dare l’ordine di arretrare fino a Monte Castelluccio, nei pressi dell’aeroporto di Ponte Olivo sulle posizioni della difesa fissa. Il gruppo mobile «E» parteciperà comunque, come vedremo in seguito, anche alla controffensiva del giorno successivo.
11 LUGLIO 1943: IL CONTRATTACCO DELL’ASSE
Già la mattina del 10 luglio il Generale Guzzoni, una volta delineatosi il quadro delle operazioni in corso, vedendo le zone interessate dagli sbarchi e le direttrici
di attacco del nemico, fece una prima valutazione strategica della situazione. Considerato
l’amplissimo tratto di costa interessato dagli sbarchi, e reputando impossibile reagire dovunque con le forze a sua disposizione, decise di sferrare un massiccio contrattacco contro le tre teste di sbarco da lui ritenute più pericolose ai fini della tenuta del fronte:
Gela, Licata e Augusta- Siracusa (14).
Diede, quindi, disposizioni affinché le due Divisioni eseguissero, alle ore 06.00 dell’indomani 11 luglio, un attacco contemporaneo «a testa bassa», in concomitanza con un attacco aereo che sarebbe stato effettuato a quell’ora. La Divisione «Livorno», che avrebbe ricevuto in concorso anche i resti del gruppo mobile «E», avrebbe attaccato ad ovest della statale 117, mentre la «Hermann Göring» a est di detta rotabile.
Obiettivo del contrattacco era quello di isolare, agendo dai due lati con un’azione
a tenaglia, la testa di sbarco dalle spiagge. I movimenti per assumere lo schieramento dovevano essere effettuati durante la notte, in modo che prima dell’alba i reparti fossero già in posizione (15).
In base agli ordini ricevuti, i due Comandanti di Divisione pianificarono nel dettaglio lo schieramento da assumere e le rispettive direttrici d’attacco, nonché le modalità di coordinamento.
Il Comandante della Divisione «Livorno», Generale Chirieleison, decise di assumere un dispositivo d’attacco su tre colonne:
- la colonna di sinistra, costituita dai resti del gruppo mobile «E», un battaglione
di fanteria e un gruppo di artiglieria, doveva muovere lungo la piana di Gela, a ovest
della SS 117; - la colonna centrale, composta da due battaglioni di fanteria e un gruppo di artiglieria, doveva muovere a cavaliere della strada Butera-Gela;
- la colonna di destra, composta da un battaglione di fanteria e un gruppo di artiglieria, doveva proteggere il fianco destro della Divisione da eventuali minacce provenienti da Licata.
Anche il Generale Conrath, Comandante della Divisione «Hermann Göring», decise di assumere un dispositivo su tre colonne d’attacco, così suddivise:
- la colonna di sinistra, composta dal reggimento Panzergrenadier e dalla compagnia carri «Tigre», doveva muovere lungo la valle del fiume Dirillo, Senia FerrataGela;
- la colonna centrale, composta da un battaglione carri e un gruppo di artiglieria, doveva muovere da Case Priolo verso Case Spinasanta-Gela;
- la colonna di destra, composta da un battaglione carri ed un battaglione genio, doveva muovere lungo la piana di Gela a est della SS 117.
AZIONE DELLA COLONNA D’ATTACCO DI SINISTRA DELLA
DIVISIONE «LIVORNO»
La colonna d’attacco di sinistra era composta dai resti del gruppo mobile «E», che si trovava già schierato tra il Castelluccio e le posizioni della difesa fissa dell’aeroporto
di Ponte Olivo, da una Compagnia mortai e dal III battaglione del 34° reggimento di fanteria comandato dal Tenente Colonnello Leonardi.
La linea avanzata della testa di sbarco si snodava lungo una serie di colline distanti circa 800 metri da Monte Castelluccio, e il terreno per raggiungerle si presentava completamente
scoperto e privo di appigli tattici (16).
Alle 05.15 arrivò l’ordine d’operazione, che descriveva l’azione delle due Divisioni; l’orario previsto per l’attacco, che doveva essere simultaneo e strettamente coordinato, era stato fissato per le 06.00, preceduto da dieci minuti di preparazione di artiglieria e da un contemporaneo attacco aereo.
Però alle 05.50 il Colonnello Martini, Comandante della colonna, non era ancora arrivato sul posto, e il Maggiore Artigiani, Comandante del I gruppo del 28° reggimento artiglieria, era arrivato a Monte Castelluccio solamente alle 05.30 e non riusciva ad avere il collegamento radio conle batterie. Il Tenente Colonnello Leonardi attese fino alle 06.30,
ora in cui nove bombardieri italiani «Cant Z. 1007 bis» attaccarono
la flotta americana alla fonda di fronte a Gela (17).
Vedendo ciò, non avendo collegamenti radio e temendo che un ulteriore ritardo avrebbe pregiudicato l’esito delle contemporanee azioni delle due
colonne che dovevano operare ai suoi lati e che costituivano
l’asse principale del contrattacco, decise d’iniziativa di dare
inizio all’attacco senza attendere oltre l’arrivo del Comandante
del reggimento e la preparazione dell’artiglieria, cercando di sfruttare al meglio le armi di accompagnamento a disposizione.
I reparti iniziarono il movimento, e subito furono investiti dal fuoco di armi automatiche
e di artiglieria campale. Nonostante tutto, la prima linea della
testa di sbarco, situata tra Poggio Frumento e Poggio Mulinazzo,
fu conquistata intorno alle 08.00.
Furono catturati circa un centinaio di prigionieri che furono avviati verso Monte Castelluccio, e da qui verso Niscemi.
Intanto il Maggiore Artigiani era riuscito a mettersi in contatto col suo gruppo, che era entrato immediatamente in azione Emblematica sulla situazione del momento e sullo stato d’animo di quanti si trovarono a combattere l’11 luglio nella piana di Gela è la testimonianza del Signor Cristani Raffaele, all’epoca Sottotenente del 28°
reggimento di artiglieria: «Quando siamo arrivati quassù (Monte Castelluccio n.d.r.), la visione del mare gremito di navi è stata
sconvolgente. Sconvolgente per la sensazione precisa di una guerra perduta che abbiamo avuto tutti. Il ricordo più ricorrente di quel giorno è la necessità, allora io giovane Ufficiale, di convincere i miei uomini, anche
ultra quarantenni, a muoversi perché erano quasi paralizzati
dall’impressione. Io stesso ero abbastanza impressionato ed emozionato da tutto questo,
ma dovevamo badare a quello che stavamo facendo, quindi c’è voluto qualche grido e anche
qualche minaccia per riuscire a smuoverli, ma in pochi minuti
sono usciti da quella specie di sbigottimento e torpore che li aveva presi» (18).
Subito dopo aver espugnato questa prima linea nemica, la colonna iniziò l’attacco alla seconda linea, svelatasi inaspettatamente
a circa 500 metri dalla prima.
Fu in questo preciso momento, erano le 08.30, che l’artiglieria navale, e più precisamente i cannoni dell’incrociatore Savannah (armato con 15 cannoni da 152 mm e otto da 127 mm) (19), aprì il fuoco contro la colonna di sinistra della «Livorno».
Significativa è la testimonianza del Tenente Messina, effettivo al III battaglione del 34°
reggimento, raccolta da
John Follain nella sua opera:
«Avanzava da circa un’ora e aveva ormai attraversato metà della piana, quando udì sopra la sua testa il sibilo di un proiettile enorme, che gli scoppiò alle spalle.[…] Si rotolò al suolo nel tentativo di sfuggire alla valanga di fuoco. Sotto la violenza dei proiettili la terra intorno a lui sembrava ribollire come l’acqua in una pentola. […] Carne contro acciaio, uomini contro navi, pensò mentre il suo corpo cominciava a tremare senza controllo» (20).
Il fuoco dell’artiglieria navale aprì larghi vuoti tra le fila del III battaglione del 34°, che per raggiungere la seconda linea nemica, sotto la tempesta di ferro e di fuoco scatenatasi, impiegò ben tre ore.
Alle 11.00 circa anche la seconda linea fu sfondata, ma i reparti erano duramente provati. A questo punto gli americani ripiegarono dentro
Gela, e il III battaglione del 34°, appena si fu riordinato, si spinse ancora in avanti, fino al posto di blocco di Gela, allo scopo di incalzare l’avversario e diminuire la distanza, in modo da conquistare una buona base di partenza per il reparto che li avrebbe dovuti eventualmente scavalcare per proseguire l’azione in profondità e riconquistare l’abitato.
A questo punto il Colonnello Martini, viste le precarie condizioni in cui versava il battaglione, ordinò al Tenente Colonnello Leonardi di fermarsi e disporsi a difesa, in modo da respingere un eventuale contrattacco nemico, in attesa di essere scavalcati da altre unità già richieste al Comando di Divisione.
Intanto il nemico continuava a martellare le posizioni tenute dal battaglione. Alle 13.00, si
seppe che la colonna di destra era stata distrutta da truppe corazzate provenienti da Licata, e che i tedeschi stavano ripiegando su Caltagirone; il battaglione rimaneva quindi isolato nella piana di Gela.
Alle 24.00 il Colonnello Martini impartì l’ordine di ripiegare su Monte Castelluccio col compito di costituire un caposaldo per una resistenza ad oltranza, per coprire il movimento di ripiegamento degli altri reparti della Divisione su nuove posizioni. Una compagnia fu, quindi, lasciata sul posto per coprire il ripiegamento del battaglione. Questa resistette per circa un’ora al secondo contrattacco notturno, dopodiché venne sopraffatta e solamente una parte di essa riuscì a ripiegare sul Monte Castelluccio.
I resti del battaglione,decimato dalle numerose perdite tra morti e feriti, con i resti
compagnia bersaglieri si organizzarono alla meglio per la difesa sul Monte Castelluccio.
Gli americani mandarono allora avanti una colonna corazzata della 155 a per annientare le unità italiane in ritirata; riprendiamo la testimonianza dell’artigliere Causin: «Gli americani avevano mandato avanti sette carri armati lungo la Strada Statale 117. Io ero il quarto pezzo e mi trovavo vicino alla strada. Il Comandante chiamò tutti quanti i puntatori e ci disse: “Tu Causin prendi il primo (il primo pezzo), e tu prendi l’ultimo, quell’altro lì il penultimo e l’altro il secondo”, sicchè erano quattro quelli che noi dovevamo colpire, però ce ne sarebbero stati altri tre che non sarebbero stati colpiti. Lui ci disse “Quando io sparerò il colpo di pistola in aria voi sparate”. Li fece venire avanti fino a una distanza di 80 metri, io sul cannocchiale li vedevo come da qui a lei, e ricordo che il primo colpo che sparai lo presi sotto, tra la terra ed il cingolo ed il carro armato si fermò.
Poi il secondo colpo lo prese in pieno e il carro s’incendiò.
Subito sparai a un altro; alla fine solamente due riuscirono a scappare.
Ma poi dopo la marina hanno tirato tante di quelle bombe. La terra sembrava ribollire; per fortuna che avevamo una posizione meravigliosa, cioè c’era un fosso fatto dal personale del
campo di aviazione, e noi avevamo quindi come protezione una specie di argine e la bocca
da fuoco era rasente. Però una granata della marina ci prese proprio sul paraschegge, e ricordo che il cannone saltò per aria, ed io che ero seduto sul sediolino, senza neanche accorgermene mi ritrovai per terra, tutti quanti pieni di terra, e il
cannone tornò giù di nuovo con un tonfo sordo, ed il Tenente gridava “Fuoco, fuoco”, e iniziammo a sparare a vista; c’erano tantissimi americani che venivano
avanti di qua e di là, erano dappertutto e quando succedeva così, come avevamo imparato durante le istruzioni si sparava un colpo qua un colpo là,
in maniera da tenere il nemico sempre in allerta, che non venisse avanti, e allora si sparava
un colpo più vicino, un colpo più
lontano. Riuscimmo comunque a respingerli».
Alle 02.30 la colonna Leonardi dovette far fronte al terzo contrattacco nemico opponendo
un’accanita resistenza, riuscendo a resistere fino alle 7 circa, quando i pochi superstiti vennero sopraffatti e catturati.
Dopo essere stati catturati, i prigionieri vennero condotti alla volta
di Gela. Per comprendere meglio le emozioni dei soldati italiani
e della popolazione di Gela, è bene riportare la testimonianza
del Tenente Colonnello Leonardi, dal suo «Diario di un battaglione», ripresa anche da Nunzio Vicino nel suo libro
«La battaglia di Gela»: «Il piccolo drappello di prigionieri procedeva lentamente verso Gela […].
Era sfinito, lacero, insanguinato […]. Il drappello giunse a Gela […]. Ma ora vi entravamo
da vinti e non da vincitori! Passammo per le vie della città. Molta
gente era commossa e piangeva anche. Non pochi ci offrirono pane, acqua, sigarette, e avrebbero dato chissà cos’altro se i soldati di scorta lo avessero permesso! Un piccolo vecchietto, che si reggeva appena sul bastone, si avvicinò e ci strinse la mano. Forse aveva visto … forse sapeva! Ma gli americani lo allontanarono immediatamente.
In mezzo a tanto popolo buono non mancarono però gli apatici, gli indifferenti. Non mancarono anche coloro che ci derisero e persino insultarono perché avevamo osato
combattere….
Pochi, ma non mancarono […]. Fieri e superbi per il dovere compiuto, alzammo la testa stanca e ci avviammo silenziosamente verso la nostra dura prigionia» (23).
AZIONE DELLA COLONNA D’ATTACCO DI DESTRA DELLA DIVISIONE «LIVORNO»
La colonna d’attacco di destra, comandata dal Colonnello Mona, Comandante del 33°
Reggimento, era costituita dal I battaglione del 33° fanteria e 46 dal I battaglione del 34° fanteria.
Alle 05.00 circa ricevettero l’ordine di contrattaccare su Gela.
Alle 07.30, dopo aver assunto lo schieramento sui Monti dell’Apa e Zai, iniziarono l’avanzata verso Gela. Il I del 33° doveva avanzare sulla destra della rotabile
Butera-Gela, mentre il I del
34° sulla sinistra. All’inizio l’attacco
si sviluppò senza una resistenza
apprezzabile. Verso le 09.00
le due unità vennero bersagliate
dal fuoco delle artiglierie
navali e terrestri, e ogni tentativo di agganciare le unità nemiche fallì di fronte alle rapide manovre elusive dei mobilissimi reparti motocorazzati nemici. Alle
10.30 circa il reparto esploratori aveva raggiunto il passaggio a livello della rotabile Butera-Gela, mentre le compagnie avanzate erano all’altezza del km
28 della stessa rotabile. Fu a questo punto che il nemico effettuò
delle puntate offensive con mezzi blindati, ma i reparti avanzanti
riuscirono a proseguire il loro movimento verso la cittadina facendo uso sia delle armi
controcarri a loro disposizione, sia dell’appoggio dell’artiglieria.
Arrivati nei pressi del passaggio a livello di Casa Femmina Morta, nelle immediate vicinanze dell’abitato, i mezzi nemici si ritirarono, dando l’impressione ai reparti attaccanti di non avere più alcun ostacolo di fronte,
sennonché si scatenò
nuovamente
un violentissimo
fuoco di repressione da parte
delle artiglierie navali e degli aerei.
Alle 11.30 una colonna corazzata nemica proveniente
da
Licata attaccò l’ala destra della colonna Mona, minacciando anche le posizioni di
Monte dell’Apa e Monte Zai.
Se fossero state perse queste posizioni, le due colonne (la destra
e la fiancheggiante) sarebbero
rimaste isolate. Nel primo
pomeriggio,
la colonna Mona
subì
un violento contrattacco da
parte dei rangers americani,
che dopo aver attraversato il
torrente Gattano si spinsero fino
al km 28 della rotabile Butera- Gela,
accerchiando i reparti avanzati.
I due battaglioni furono quindi bersagliati nuovamente dall’artiglieria e da attacchi aerei; cercarono
disperatamente di rompere
l’accerchiamento, resistendo
fino alle 15.30 circa, ora in cui
furono
sopraffatti e i superstiti catturati,
compresi i due Comandanti
di Battaglione, mentre del
Colonnello Mona non si avevano notizie (il Colonnello Mona riuscì
a
sfuggire alla cattura, e presentatosi
al Comando Divisione,
confermava
l’accaduto). Quindi,
il
Generale Chirieleison diede
l’ordine
di ripiegamento sulle posizioni
di partenza alle altre due colonne (sinistra e fiancheggiante), in quanto rimanevano sbilanciate in avanti nella piana di Gela (25).
AZIONE DELLA COLONNA FIANCHEGGIANTE DELLA DIVISIONE «LIVORNO»
Alle 05.40 dell’11 luglio, il battaglione ricevette l’ordine di contrattaccare su Gela alle ore 06.00, con direttrice d’attacco a cavallo della rotabile stazione di Butera-Gela.
L’attacco però non poté iniziare prima delle 07.25 (le tre compagnie infatti erano schierate su una fronte di circa 3,5 chilometri, e i collegamenti avvenivano solo per mezzo di staffette).
Alle 16.30 circa durante il movimento di avvicinamento, arrivato all’altezza di Manfria, il battaglione veniva sottoposto a un violento fuoco di artiglieria navale e terrestre.
Contemporaneamente, una
colonna motocorazzata nemica, seguita da reparti di fantria provenienti da Licata, attaccava il lato destro del battaglione, ma grazie all’intervento dei
cannoni da 47/32 e delle batterie
del IV gruppo del 28° artiglieria, tre mezzi nemici venivano distrutti, mentre gli altri si ritiravano.
Verso le 17.30 si profilava un secondo attacco di mezzi blindati
nemici sulla fronte e sul fianco sinistro
del battaglione, mentre
l’artiglieria
navale riprese a battere il fianco destro di detta unità
per appoggiare una nuova puntata
offensiva degli elementi precedentemente
respinti. Anche
questi contrattacchi furono contenuti
grazie al fuoco dei cannoni
da 47/32 e delle batterie del IV
e II gruppo del 28°. A questo punto
però, per evitare di essere accerchiato,
il Tenente Colonnello Mastrangeli diede l’ordine alle
unità
superstiti di ripiegare sulle
posizioni
di partenza. A copertura
del
movimento fece schierare la
6 compagnia rinforzata da un plotone cannoni da 47/32 allo
a
scopo di sbarrare la strada a
eventuali puntate offensive nemiche
provenienti dalla strada statale
115 in direzione della stazione
di Butera. Alle 20.00 i resti del
battaglione erano ripiegati sulle
posizioni
di partenza. Intanto,
alla
stessa ora, cessava la resistenza
delle posizioni di Monte
Lungo
e Manfria, che, accerchiate
già dal giorno 10, avevano resistito
fino al pomeriggio inoltrato dell’11.
AZIONE DELLA DIVISIONE «HERMANN GÖRING»
Alle 06.00 la colonna di sinistra della «Hermann Göring», composta dal reggimento Panzergrenadier e dalla compagnia di carri «Tigre», iniziava l’attacco
raggiungendo facilmente la foce
del Dirillo e da lì Senia Ferrata,
seguendo la linea ferroviaria
costiera
che da Vittoria portava a Gela (29). Per comprendere
meglio
quei momenti convulsi
Azione del II/33° dell’11 luglio 1943
della battaglia, risulta significati-
va la testimonianza del Capora-
le Werner Hahn, cannoniere su
un carro armato «Tigre», raccolta
dall’autore John Follain: «Alle
11.00
del mattino, a quasi 13 chilometri
da Gela, udì il Comandante
del suo Panzer gridare: “carro armato nemico a sinistra.
[…]”. Hahn ruotò la torretta
a
sinistra, più in fretta che potè.
Valutò approssimativamente in
600 metri la distanza dal carro
armato[…].
Il proiettile colpì lo Sherman, che si incendiò. […] Hahn fece fuoco di nuovo, que-
sta volta contro uno Sherman che si trovava a 1 500 metri. […]
Di tanto in tanto le nuvole di fiamme e polvere provocate
dall’artiglieria nemica, dai mortai
e dalle armi anticarro gli oscuravano
la visuale[…]. Era
uno sbarramento peggiore di quelli che si era trovato ad affrontare
in Russia. […] Con il protrarsi
della battaglia la temperatura dentro il carro salì vertiginosamente. All’esterno c’erano circa 35 gradi all’ombra, ma all’interno del carro Hahn valutò che dovevano essere tra i 50° e
i 60°».
La colonna di destra partì da Ponte Olivo solo alle 07.45. Alle 08.00 partì la colonna centrale, che, superata la resistenza opposta
dalle truppe alleate a Case
Priolo, si diresse su Case Spinasanta,
per poi ricongiungersi
con la colonna di destra nella piana
del Signore, arrivando a circa
1 000 metri dalla spiaggia.
Tutte e tre le colonne avanzarono quasi indisturbate, in quanto gli americani non avevano a
disposizione carri armati perchè, non trovando posto sui mezzi da sbarco
più piccoli, dovevano essere
sbarcati tramite dei pontili galleggianti proprio quella mattina intorno alle 11.00; inoltre
avevano penuria di armi controcarri in quanto tutta la dotazione
del 26 Regimental Combat Team statunitense (1 th Divisione) era trasportata sulla nave da
sbarco LST-313 che era affondata il giorno prima durante un attacco aereo da parte della Luftwaffe.
Alle 08.29 l’incrociatore Savannah iniziò a far fuoco sulla
colonna corazzata di destra, mentre alle 08.47 il cacciatorpediniere
Glennon apriva il fuoco sulla colonna centrale che da Case Priolo si stava già dirigendo verso Spinasanta (31). Nonostante l’infernale sbarramento scatenato dalle unità navali americane, l’avanzata della Divisione «Hermann Göring» non fu
arrestata.
Alle 11.00 la Divisione aveva
superato a sinistra Senia Ferrata,
Monumento ai caduti della battaglia
di Gela al centro Case Spinasanta e a
destra Case Aliotta; i carri armati
sembravano inarrestabili. Tra
le fila nemiche si vissero attimi di
disperazione;
molti ormai pensavano
che la testa di sbarco fosse
perduta. Fu proprio a quell’ora,
alle 11.00 circa, che il Comando della VI Armata intercettò
un messaggio in chiaro,
attribuito al Generale Patton, in
cui si diceva di sotterrare i materiali sulle spiagge e prepararsi al
reimbarco. Gli americani
hanno sempre smentito tale co-
municazione radio, che peraltro
non trova riscontro nei loro archivi.
Piuttosto, come scrive lo storico
Hugh Pond, l’episodio
sarebbe
da attribuire a qualche
Ufficiale
superiore che, vista la
situazione disperata in cui si trovava
il proprio reparto, aveva
preso
l’iniziativa di trasmettere
quel messaggio (32).
Tuttavia proprio quando la situazione sembrava ormai volgere totalmente a favore delle
truppe dell’Asse, ecco che fecero
la loro comparsa aerei tattici
americani che attaccarono
le
immediate retrovie italo-tedesche.
Contemporaneamente una
colonna corazzata con 250
paracadutisti
dell’82 Divisione
aerotrasportata statunitense,
comandati dal Colonnello Gavin
e provenienti dal settore di
Scoglitti, attaccò sul fianco e alle
spalle la colonna di sinistra
della
«Hermann Göring».
Alle 14.00 le colonne di destra
e
centrale, dopo essere state
decimate
dal fuoco delle artiglierie
navali, e sotto la crescente minaccia dei reparti provenienti
da Scoglitti e dai mezzi corazzati che gli americani erano
riusciti a far sbarcare su Gela,
dovettero iniziare il ripiegamento sulle basi di partenza.
Solo la colonna di sinistra continuò a combattere lungo la linea ferrata Vittoria-Gela fino a
sera, ma alle 21.30, su ordine del Generale Rossi (Comandante del XVI Corpo d’Armata, responsabile per la condotta del contrattacco dell’11 luglio), dovette ripiegare, in quanto era rimasta l’unica colonna protesa su Gela.
A fine giornata le perdite delle forze italo-tedesche furono notevoli.
La Divisione «Livorno» aveva perso la sua capacità offensiva a causa delle ingenti perdite subite; infatti al termine della giornata tra morti, feriti, prigionieri e dispersi aveva perso 214 Ufficiali e 7.000 tra Sottufficiali e truppa su un totale di 11 400 uomini.
La Divisione «Hermann Göring» aveva perso 30 Ufficiali e 600 tra Sottufficiali e truppa su un totale di 8 739, mentre dei 99 carri impiegati ne furono messi fuori combattimento
43 (33).
Buona parte di tali perdite furono dovute all’efficacia del tiro
delle artiglierie navali, che avevano potuto operare quasi indisturbate,
senza essere controbattute né da mezzi navali né
da significativi attacchi aerei.
La battaglia di Gela, che aveva visto i soldati dell’Asse sul punto di occupare l’abitato e ricacciare in mare il nemico, era ormai persa e il XVI Corpo d’Armata, a meno di ricevere eventuali rinforzi, aveva esaurito buona parte delle riserve mobili a sua disposizione.
LE STRAGI AMERICANE DELL’AEROPORTO DI SANTO PIETRO
L’aeroporto 504, denominato 50 Tavola n. 19 dagli Alleati aeroporto di Biscari,
ma dislocato sull’altopiano di Santo Pietro (territorio di Caltagirone), era gestito dai tedeschi e aveva soprattutto la funzione di pista ausiliaria per i caccia.
Qui non erano dislocati reparti fissi dell’aviazione, ma solo la difesa controaerea, costituita da tre batterie della Milizia (34), e i reparti del Regio Esercito facenti parte della difesa fissa. Questi reparti erano comandati dal Maggiore
Quinto ed erano costituiti dall’11 compagnia del IV battaglione del 120° reggimento
fanteria, una compagnia del 153° battaglione mitraglieri e due
batterie da 149/12, dislocati
come da piantina riportata
nella tavola n° 19, per un totale
di 500 uomini circa (35).
Alla difesa dell’aeroporto concorreva
anche il gruppo mobile
«H» del Tenente Colonnello Cixi,
dislocato
a Caltagirone. Il suo
orientamento
d’impiego era
quello
di intervenire in rinforzo
alla
difesa fissa dell’aeroporto di Santo
Pietro, ed era così composto:
•9a compagnia del 76° reggimento fanteria, rinforzata da un plotone mitraglieri;
• 1 plotone mortai da 45, 1 plotone mortai da 81 del 76° reggimento fanteria;
• 3 compagnia del CIII battaglione controcarri;
•7a batteria del 54° reggimento artiglieria;
•2a compagnia carri «Fiat 3000».
Fin dal 10 luglio i reparti della difesa fissa e del gruppo mobili si erano trovati ad affrontare reparti di paracadutisti statunitensi scesi nella zona. Il 13 l’aeroporto fu sottoposto a un intenso fuoco d’artiglieria nemica. Alle 15.00 l’artiglieria dell’aeroporto apriva il fuoco su elementi del 180 Regimental Combat Team americano che si trovavano su
Piano Stella. Nella compagnia «A» di questa unità americana vi era il Sergente West, il quale
racconta che mentre salivano sulla collina dove era situato l’aeroporto, la mattina del 14,
furono attaccati da cecchini e dal fuoco di mortai.
Un’ora dopo gli americani mettevano piede all’interno dell’aeroporto, catturando i difesori.
A questo punto il Maggiore
Denman, Comandante dell’unità
appartenente al 180
Regimental
Combat Team, consegnò
al Sergente West un gruppo di 46 prigionieri, col compito di
scortarli nelle retrovie (36). Questi
gli fece togliere le camicie e le
scarpe, per impedire che
scappassero,
e li fece incamminare
lungo la strada per Biscari. Poco
dopo nove prigionieri vennero
prelevati dall’Ufficiale S2 del
reggimento (l’addetto alle
informazioni)
che li portò via.
Ma vediamo la testimonianza, raccolta
da Gianluca di Feo e
ripresa
dal Prof. Bartolone nella
sua opera, dell’unico superstite
della imminente strage, l’aviere
Giannola: «[…] Dopo quattro
giorni di combattimento avevamo
alzato le braccia[…] Mentre
gli
americani ci spogliavano io
pensavo
alla festa, pensavo a
casa.
Poi abbiamo camminato
sotto il sole; saremo stati in cinquanta, tutti senza scarpe, a
torso
nudo, in mutande o con i
pantaloni
corti. Dopo qualche
ora
ci hanno fatto fare una so-
th
sta, stavamo seduti in un campo
all’ombra degli ulivi. […]
Tempo un quarto d’ora e ci siamo
alzati di nuovo: ci hanno fatto
mettere su tre file. […] A quel
punto gli americani hanno cominciato
a sparare. Sono stato
colpito
subito: un proiettile mi
ha spezzato il polso e mi sono
buttato a terra. Ho fatto solo in
tempo a fissare l’immagine di
quel Sergente gigantesco, con il
tatuaggio
sul braccio, che impugnava il mitra. Poi i corpi degli altri mi sono caduti addosso.
[…]
Sono rimasto immobile per un paio d’ore, finché il silenzio
non è diventato totale. Lentamente, quasi paralizzato dalla
paura, ho spostato i corpi e mi
sono alzato. Ho fatto solo in tempo
a guardarmi attorno ed
è
arrivata la fucilata. Ricordo il
botto
e il calore che mi bruciava
la testa. Sono caduto, sorpreso
d’essere ancora vivo. Il
proiettile mi ha preso di striscio
[…].
Con la faccia a terra credevo di non avere più scampo,
invece nulla. Non so quanto tempo sia passato. Mi dicevo: non muoverti. Ma avevo sete. Il polso spezzato e la ferita alla testa mi bruciavano. Il dolore ha superato
la paura. Mi sono mosso carponi, temendo un altro sparo. Ho camminato così fino ad una strada sterrata. […] È passata un’ambulanza e si è fermata. Si sono resi conto che ero un italiano, ma mi hanno dato da bere e bendato le ferite con attenzione. Poi a gesti mi
hanno fatto capire di restare vicino alla strada: “verranno a prenderti”.
[…] È arrivata una jeep con tre soldati. Quelli sono scesi, penso mi avessero scambiato per uno di loro. Mi parlavano sorridendo, poi si sono accorti che non capivo. Li ho visti guardarsi in faccia, quello con il fucile ha indicato all’altro la jeep, lo ha mandato via. È rimasto solo, in piedi, di fronte a me.
Io ero seduto, lui mi fissava. Poi ha imbracciato la carabina. Ha mirato al cuore e ha sparato (37)».
Incredibilmente, Giannola sopravvisse anche alla terza fucilata.
Fu trovato e raccolto da un’ambulanza americana che lo trasportò in un ospedale da campo.
Da lì iniziò la sua lunga odissea per gli ospedali alleati nel Nord Africa. Per il Regio Esercito, Giannola risultò disperso e addirittura sospetto di diserzione.
Rientrato dalla prigionia, andò a denunciare l’accaduto alle
autorità militari, ma non fu
creduto da nessuno.
Il giorno dopo, il cappellano militare, Luogotenente Colonnello King, mentre era in viaggio sulla
strada che da Biscari portava all’aeroporto, notò un
gruppo di corpi, e poiché stava
lavorando per il servizio di sepoltura,
scese per verificare. Notò
che quei corpi presentavano ferite all’altezza del cuore, e che alcuni presentavano chiari segni di colpi sparati a bruciapelo
alla testa (38).
Poche ore dopo l’assassinio dei 37 prigionieri da parte del Sergente West, il Capitano Compton ordinò l’esecuzione di altri
36 prigionieri di guerra italiani.
Per tutto il pomeriggio questi
soldati italiani avevano tenuto in scacco la sua unità con un nutrito fuoco di mitragliatrici. Sennonché, quando i suoi uomini si avvicinarono
al bunker da dove sparava la mitragliatrice, videro uscire due uomini, di cui uno in
borghese, con uno straccio bianco attaccato al fucile. Subito
dopo uscirono da quel fortino 40
persone delle quali una parte in abiti borghesi. Subito questi
prigionieri furono accompagnati dal Capitano Compton, che immediatamente li fece allineare e fucilare da un plotone d’esecuzione costituito dai suoi uomini (39).
Il Generale Bradley, venuto a conoscenza dei due episodi, ne parlò col Generale Patton, il quale gli disse di far dire dai responsabili di quegli atti che quei prigionieri erano cecchini irregolari e che avevano tentato di scappare (40).
Il Generale Bradley però non gli credette e fece aprire un’inchiesta, alla fine della quale i
due responsabili furono processati da una Corte Marziale in totale segreto.
Dagli atti del processo risulta che entrambi gli imputati addussero come giustificazione che il Generale Patton, in un discorso tenuto alle truppe prima della partenza dall’Africa, aveva aveva detto che se i nemici continuavano a sparare fino a quando si trovavano ad una distanza di 100-200 metri, allora, anche se si fossero arresi, quei bastardi dovevano essere uccisi (41). Molti interpretarono queste parole come l’intendimento dei Comandanti di non fare prigionieri.
Il Sergente West venne condannato all’ergastolo, poiché il suo crimine non fu perpetrato
durante uno scontro a fuoco, per cui era immotivato e fu attribuito esclusivamente alla sua efferatezza (42).
Il Capitano Compton fu invece assolto, poiché secondo la Corte Marziale aveva agito conformemente agli ordini ricevuti.
Di tutto ciò, in Italia non vi è nessuna traccia nei resoconti ufficiali, in quanto gli Stati Uniti
mantennero il più stretto riserbo sull’accaduto per non pregiudicare i rapporti tra le due Nazioni.
Solo grazie all’opera meritoria di ricerca del Senatore Augello, dopo circa settant’anni è
stato possibile rendere noti i nomi di questi soldati, sottraendoli così a un immeritato oblio.
Gli Eserciti alleati, a causa anche della manovra di ripiegamento per linee successive attuata dal Generale Guzzoni, per conquistare l’isola impiegarono altri 31 giorni in cui continuarono a susseguirsi aspri combattimenti. Infatti, solamente la sera del 16 agosto 1943 fu occupata l’ultima linea di ripiegamento sull’allineamento Divieto Monte Antennamare-Moleti.
Durante la notte furono traghettati gli ultimi reparti tedeschi e i reparti costieri
presenti ancora sull’isola («Operazione Lehrgang») (43).
Tale operazione si dimostrò un vero successo, al pari di quello conseguito dagli inglesi a Dunkerque.
Infatti, nonostante il nemico avesse il pieno dominio del cielo e del mare, i tedeschi,
utilizzando circa ottanta motozattere (44), riuscirono a far passare in Calabria 39.569 militari, compresi 4 444 feriti, 9.605 autoveicoli, 47 carri armati, 94 pezzi di artiglieria, 1 100 tonnellate di munizioni, 970 tonnellate di carburanti e 15.700 tonnellate di altro materiale (45).
Gli italiani, invece, utilizzando solo 4 motozattere riuscirono a traghettare in Calabria circa 75.000 soldati, 42 pezzi d’artiglieria, 38 cannoni anticarro e 500 automezzi (46).
All’alba del 17 agosto le avanguardie della 3 Divisione statunitense entravano a Messina. a
Qualche ora dopo fecero il loro ingresso nella città le avanguardie inglesi. Dopo 38 giorni
di combattimenti la campagna di Sicilia era terminata.
NOTE
(1) L. Hart, «Storia militare della Seconda guerra mondiale», Mondadori, Milano, 2000, pag. 609 e segg.
(2) A. Santoni, «Le Operazioni in Sicilia
e Calabria (luglio-settembre 1943)», USSME,
Roma, 1989, pag. 100
(3) E. Faldella, «Lo sbarco e la difesa
della Sicilia», L’Aniene, Roma, 1956, pag. 111
(4) A. Santoni, op. cit., pag. 146
(5) N. Vicino, «La battaglia di Gela», La Moderna, Modica (RG), 1976, pag. 205
(6) F. Kurowski, «The history of the Fallschirm
Panzerkorps Hermann Göring»,
Fedorowicz
Publishing Inc., Canada,
1995,
pag. 153
(7)
A. Santoni, op. cit., pag. 158
(8) Intervista rilasciata dal Signor Bruno Causin in data 19 gennaio 2009
(9)
A.U.S.S.M.E., cartella 1506, «Relazione
del Capitano Granieri, Comandante
della 1
compagnia del 131°
reggimento carri»
(10) H. Pond, «Sicilia», Longanesi, Milano,
1971, pag. 130
(11)
A. Augello, «Uccidi gli Italiani. Gela
1943, la battaglia dimenticata»,
Mursia,
Milano, 2009, pag. 88
(12)
A. Augello, op. cit., pagg. 86-87
(13)
E. Faldella, op. cit., pag. 301
(14)
E. Faldella, op. cit., pag. 121
(15)
E. Faldella, op. cit., pag. 145
(16)
A.U.S.S.M.E., cartella 2124/A, «Relazione
sul combattimento della piana
di Gela al quale prese parte il
III/34°»,
pag. 2
(17) A. Santoni, op. cit., pag. 187
(18) Periodico «Limen», n° I,
gennaio/giugno
2005, Testimonianza
di
Raffaele Cristani, ultimo testimone
della
battaglia di Gela
a
(19) A. Santoni, op. cit., pag. 203, nota
43
(20) J. Follain, «L’isola di Mussolini», Le
Scie Mondadori, Cles (TN), 2007, pag. 127
(21) Intervista rilasciata dal Signor Bruno
Causin in data 19 gennaio 2009
(22)
A.U.S.S.M.E., cartella 2124/A, «Relazione
sul combattimento della piana
di Gela al quale prese parte il
III/34°»,
pagg. 8-9
(23)
N. Vicino, op. cit., pagg. 158-159
(24)
A. Santoni, op. cit., pag. 205-207
(25) A.U.S.S.M.E., cartella 1506, «Relazione
del Comando Divisione “Livorno”
sul fatto d’arme di Gela; fonogramma
n° 15 delle 15.30 diretto al
Comando
XVI Corpo d’Armata»
(26)
A.U.S.S.M.E., cartella 1506, «Relazione
sull’attività svolta dal II/33° durante
il ciclo operativo di Sicilia dal 10
al
28 luglio 1943», pag. 1
(27)
A.U.S.S.M.E., cartella 1506, «Relazione
sull’attività svolta dal II/33° durante
il ciclo operativo di Sicilia dal 10
al
28 luglio 1943», pag. 1
(28) A.U.S.S.M.E., cartella 1506, «Relazione
del Comandante interinale del
33°
reggimento sul fatto d’arme di
Gela
(I e II/ 33°)», pag. 2
(29)
A. Santoni, op. cit., pag. 200
(30) J. Follain, op. cit., pag. 143
(31) A. Santoni, op. cit., pagg. 202-203
(32) H. Pond, op. cit., pag. 142
(33) A. Santoni, op. cit., pagg. 207-210
(34) A. Santoni, op. cit., pag. 515
(35) A.U.S.S.M.E., cartella 1207, «Diario
storico
del Comando difesa fissa
dell’aeroporto
504, bimestre marzo-aprile 1943»
(36)
G. Ciriacono, «Le stragi dimenticate»,
Catania, 2003, pagg. 27-28
(37)
G. Bartolone, «Le altre stragi», Officine
Tipografiche Aiello & Provenzano,
Bagheria (PA), 2005, pagg. 45-46
(38)
G. Ciriacono, op. cit., pagg. 32-33
(39) Ivi, pag. 43 e segg.
(40) Ivi, pag. 21
(41) Ivi, pag. 45
(42) Ivi, pagg. 41-48
(43) E. Faldella, op. cit., pag. 275
(44) A. Santoni, op. cit., pag. 389
(45) Ivi, pag. 398
(46) E. Faldella, op. cit., pag. 276
BIBLIOGRAFIA
- A. Augello, «Uccidi gli Italiani. Gela 1943, la battaglia dimenticata», Mursia,
Milano, 2009 G.Bartolone, «Le altre stragi», Officine Tipografiche Aiello & Provenzano, Bagheria (PA), 2005 - G. Ciriacono, «Le stragi dimenticate», Catania, 2003
- E. Faldella, «Lo sbarco e la difesa della Sicilia», L’Aniene, Roma, 1956
- J. Follain, «L’isola di Mussolini», Cles (TN), Mondadori, 2007
- F. Kurowski, «The history of the Fallschirm
Panzerkorps Hermann Göring», Fedorowicz Publishing Inc., Canada, 1995 - C. Nanni, «La Livorno. Divisione fantasma»,
International Magazines, Bologna, 1978 - H. Pond, «Sicilia», Longanesi, Milano, 1971 A.
- Santoni, «Le operazioni in Sicilia e Calabria (luglio-settembre 1943)», USSME,
Roma, 1989 - F. Stefani, «La storia della dottrina e degli ordinamenti dell’Esercito Italiano», USSME, Roma, 1985
- «Segni convenzionali e abbreviazioni», ed. Ministero della Guerra, Roma, 1939
- N. Vicino, «La battaglia di Gela», La Moderna, Modica (RG), 1976.
QUOTIDIANI E RIVISTE
- G. Di Feo, Sicilia 1943, l’ordine di Patton: «Uccidete i prigionieri italiani»,
- «Corriere della Sera», 23 giugno 2004 Periodico «Limen», n° I, gennaio/giugno 2005, Testimonianza di Raffaele Cristani, ultimo testimone della battaglia di Gela.
FONTI D’ARCHIVIO
- «Diario Storico del Comando Divisione “Livorno”, 01 luglio – 13 agosto 1943», AUSSME, cartella 1506; testo manoscritto di 29 pagine
- «Diario storico del 34° reggimento fanteria “Livorno” del bimestre luglioagosto 1943», AUSSME, cartella 1506; testo dattiloscritto di 24 pagine
- «Diario storico difesa fissa aeroporto 504 (Santo Pietro, ovvero Biscari) del bimestre marzo-aprile 1943», AUSSME, cartella 1207; testo manoscritto di 29
pagine, 6 allegati - «Ordine di Operazione n° 1 dell’11 luglio
1943 ore 01.00 del Comandante
della
Divisione “Livorno” Generale Chirieleison»,
AUSSME, cartella 1506; testo dattiloscritto di 3 pagine - «Ordine di operazione n° 2 dell’11 luglio 1943 del Comandante della Divisione
“Livorno”, Generale Chirieleison», AUSSME, cartella 1506; testo dattiloscritto
di 2 pagine - «Relazione del Comandante della Divisione
“Livorno”, Generale Chirieleison,
sul combattimento dell’11 luglio 1943
(attacco di Gela), con relativi fonogrammi
allegati», AUSSME, cartella
1506;
testo dattiloscritto di 9 pagine «Relazione del Comandante della Divisione
“Livorno” Generale Chirieleison
sugli avvenimenti dal 12 luglio al
15
luglio 1943», AUSSME, cartella 1506;
testo
dattiloscritto di 11 pagine - «Relazione
del Comandante interinale
del 33° reggimento fanteria della
Divisione
“Livorno”, Tenente Colonnello
Carta, sul fatto d’arme di Gela (I e
II/33°
fanteria)», AUSSME, cartella
1506;
testo dattiloscritto di 2 pagine - «Relazione del Comandante del 34° reggimento fanteria della Divisione
“Livorno” sul fatto d’arme di Castelluz-
zo del giorno 11/07/1943 (settore di
Gela)», AUSSME, cartella 1506; testo
dattiloscritto di 4 pagine - «Relazione del Comandante del
III/34° reggimento fanteria della Divisione
“Livorno” sul combattimento
della
piana di Gela (11-12 luglio
1943)»,
AUSSME, cartella 2124/A; testo
dattiloscritto
di 11 pagine - «Relazione
del Comandante del gruppo
tattico «Coco» del 34° reggimento
fanteria della Divisione “Livor-
no” sulle operazioni svolte dal 10 al 31
luglio 1943», AUSSME, cartella 1506; testo
dattiloscritto di 7 pagine - «Relazione del Comandante del II
battaglione e del gruppo tattico «Mastrangeli»,
del 33° reggimento fanteria
della Divisione “Livorno”, sulle operazioni
svolte dal 10 al 28 luglio 1943»,
AUSSME, cartella 1506; testo dattiloscritto
di 10 pagine «Dichiarazione
del Caporal Maggiore Lipari
e del Fante Munafò del 384°
battaglione
costiero sugli avvenimenti
accaduti a Monte Zai dal 9 al 12 luglio 1943», AUSSME, cartella 1506; testo dattiloscritto di 3 pagine. - «Relazione del Comandante della 206 a
Divisione costiera, Generale D’-
Havet, sulle operazioni svolte dal 9 al
12 luglio 1943», AUSSME, cartella 1427;
testo dattiloscritto di 10 pagine (All. n°
59/6 al «Diario storico del XVI Corpo
d’Armata») - «Relazione cronologica degli avvenimenti della XVIII batteria costiera, dal 9 all’11 luglio 1943», AUSSME, cartella 1427; testo dattiloscritto di 10 pagine «Relazione del Comandante del gruppo mobile “H” (aeroporto di Santo Pietro), Tenente Colonnello Cixi, sulle operazioni svolte dal 10 al 14 luglio 1943», AUSSME, cartella 1506; testo dattiloscritto di 5 pagine «Relazione del Comandante della compagnia
carri R/35 del gruppo mobile “E” (Niscemi-aeroporto Ponte Olivo), Capitano Granieri, sulle operazioni svolte dal 10 al 13 luglio 1943», AUSSME,
cartella 1506; testo dattiloscritto di 2 pagine - «Relazione del Comandante della 2 compagnia controcarri del gruppo mobile “E” (Niscemi-aeroporto Ponte Olivo), Capitano Ferrari, sulle operazioni svolte dalla compagnia dal 10 luglio 1943 in poi», AUSSME, cartella 2124/A; testo dattiloscritto di 3 pagine.
tratto da: Numero 6 NOV-DIC 2014 _ Rassegna dell’Esercito on line di Rivista Militare
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