Carlo Vicentini, classe 1917, è uno dei “Ragazzi di Aosta ’41”. Partito per la Campagna di Russia con il grado di Sottotenente nei ranghi del Plotone Comando del Btg. Alpini Sciatori “Monte Cervino.”
Catturato dai Russi il 19 gennaio 1943 è rientrato in Italia nel 1946, dopo aver passato 3 anni in prigionia, in diversi lager. È decorato con due Medaglie di Bronzo al Valor Militare.
Dal 2004 al 2007 è stato Presidente nazionale dell’UNIRR (Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia).
Ha scritto:”Noi soli vivi”, un libro sulla sua esperienza in Russia e in particolare sui campi di prigionia sovietici; “Rapporto sui prigionieri italiani in Russia”, rassegna sui numeri e sulle fasi della prigionia dalla cattura alla liberazione, scritto insieme a Paolo Resta; “Il sacrificio della Julia”, un tributo al valore dei soldati della Julia nell’affrontare l’accerchiamento russo.
Negli anni si è impegnato molto per il ricordo dei propri compagni che sono rimasti in Russia sia partecipando alle manifestazioni (commemorazioni, convegni, incontri), sia lavorando per il Ministero della Difesa e per Onorcaduti alla ricostruzione degli elenchi e allo studio degli archivi russi sui campi di prigionia.
Chi conosce il personaggio, nel leggere l’intervista, ritroverà quel carattere schietto, un po’ burbero, di un reduce che racconta i fatti senza troppe smancerie, di un uomo che non ama mediazioni, né mezze misure…
Un ringraziamento doveroso al reduce Vicentini per avermi accolto nella sua casa e per aver rilasciato questa intervista e a Paolo Plini che ha fatto da mediatore e che ha revisionato la trascrizione definitiva.
Achille Omar Di Leonardo
* * *
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Monteporzio Catone, giovedì 15 luglio 2010
Si parla del libro “Il labirinto di ghiaccio” di Gino Papuli.
Papuli non ha mai promosso il suo libro. Credo che non abbia mai voluto mettersi in mostra. Era un uomo riservato, anche se nella sua Terni era una persona nota. Si deve a lui il monumento della pressa delle vecchie acciaierie e l’annesso museo che oggi si trovano davanti alla stazione. A mio parere era un eccellente scrittore e un grande poeta e questo libro – “Il labirinto di ghiaccio” – con il suo stile liscio, chiaro ed elegante, lo dimostra.
È un libro che non conosco. Lo leggerò volentieri. È strano come tante testimonianze, con il tempo, siano cadute nell’oblio. Del 120° dovrei però avere qualcosa… forse un elenco.
L’elenco dei caduti del 120° in verità l’ho già pubblicato sul sito. Lo richiesi all’associazione Unirr quando lei era ancora presidente. Non ho però l’elenco dell’organico.
Gli elenchi degli organici non esistono o comunque non sono facili da reperire, non ci sono neanche degli alpini. Durante la guerra è crollato tutto e certi archivi sono andati perduti.
Ma è possibile che negli archivi di Stato non si possano trovare?
Degli elenchi esistono ma non sono mai stati informatizzati, allora si scriveva tutto a mano. I fogli matricolari, i nostri stati di servizio erano tutti gran papiri redatti a mano. Ora giacciono nei vari distretti militari e l’Albo d’Oro ha avuto grande difficoltà quando ha voluto sapere chi erano i soldati non tornati dalla Russia. Ha dovuto fare una grande ricerca interpellando i Comuni. Nei Comuni era più facile recuperare certe informazioni perché spesso, essendo piccoli centri, avevano maggiore cognizione del numero dei propri cittadini che non erano tornati dal fronte. In base alle informazioni raccolte, l’ufficio dell’Albo d’Oro ha interessato i presidi, i distretti militari e da lì si è riusciti a stilare un elenco preciso. Da questo elenco risultano oggi circa 90.000 nominativi “non tornati” dal fronte russo. Di questi, una parte si sa che sono caduti.
Normalmente vengono stimati in 80.000 invece sono ormai definitivi 90.000?
Certo. Una parte di questi, che il Ministero definisce con una formula a mio avviso errata, sono i “dispersi”: in Russia non si è “disperso” nessuno! Ad ogni modo per molti di questi, circa 60.000 (“dispersi”), non esiste documentazione che dia certezza di decesso in combattimento o in prigionia per cui sono considerati “sospesi”.
I 60.000 sono i non accertati!
Sì, non accertati. I numeri esatti li ho in quel promemoria, li legga.
Caduti 7.960, dispersi 56.393, deceduti in prigionia 24.202, noti 378.
Sono i dati che risultano dagli archivi russi.
Perché ci sono allora anche i cosiddetti “noti”? Nell’elenco del 120° pubblicato sul sito appare come una delle voci. A chi mi ha chiesto il significato di questa parola ho sempre risposto che, probabilmente, si hanno notizie delle circostanze della scomparsa. Ho quindi sbagliato a interpretare?
I “noti” sono quei soldati deceduti dei quali si conosce solo il nome, ma non si trovano i corrispondenti documenti militari (foglio matricolare). Non sono compresi tra i non tornati.
Mi spieghi meglio. I “caduti” sono quei soldati morti in combattimento, giusto?
I “caduti” sono quelli di cui si conosce la testimonianza, di cui si è certi delle circostanze del decesso. Esiste per esempio un certificato dell’ufficiale medico, di un ufficiale in genere o del cappellano militare. Oppure esiste la dichiarazione di un reduce, una dichiarazione che sia però una testimonianza oculare. Ma questo tipo di dichiarazioni sono pochissime. Nella ritirata nessuno aveva tempo di stilare un elenco dei verbali. A questo proposito scrissi un articolo intitolato “Chi sono i dispersi” dove affronto questo tema.
Da quell’articolo in poi ci sono state altre novità al riguardo?
No, si sono aggiunti nuovi nomi di soldati deceduti in prigionia. I russi ci hanno consegnato dei registri informatizzati, vede? Li ho qui. Questi elenchi sono stati già tutti traslitterati dal russo. Il problema è che quando si ottiene la parola traslitterata non sempre esiste il cognome corrispondente nell’elenco ufficiale di coloro che non sono tornati, perché sono stati un po’ modificati nella trascrizione. Ora però sto ricontrollando i dati, i nomi doppi, perché i Russi continuano a darci doppioni.
Vedo che questo è un tabulato informatico. I russi quindi hanno informatizzato gli elenchi dei prigionieri.
Loro sì, lo hanno fatto.
Cosa conservano dell’armata italiana a parte questo elenco? Le trascrizioni degli interrogatori, per esempio, li hanno?
Hanno i fascicoli ma quelli non li fanno consultare, ne hanno inviati alcuni. Ne ricordo uno di Loris Nannini, un sottotenente. Si tratta di un formulario, il medesimo che usavano per gli interrogatori politici degli stessi Russi.
Scritti tutti in cirillico?
Sì. C’è stato un periodo in cui fu creata una commissione degli atti giuridici. A capo di questa commissione c’era un presidente di cassazione che voleva mettersi in mostra per cui diede disposizioni di inviare addetti in Russia a fotocopiare una serie di fascicoli. Ma i Russi gli fecero fotocopiare solo la copertina. Nella copertina ovviamente ci sono i dati ma non il contenuto degli interrogatori. I Russi però ci avevano già dato gli elenchi. Quindi si creò un po’ di discussione tra il Ministero della Difesa e questa commissione (che dipendeva direttamente dalla Presidenza del Consiglio) perché avevano speso molti soldi per fotocopiare e, successivamente, per far tradurre i documenti. Tutto questo ha fruttato un altro centinaio di altri nomi non presenti negli elenchi precedentemente inviatici. Si vede che non erano stati cercati bene nel primo resoconto.
E adesso a che punto sono le ricerche?
È tutto fermo!
Chi ha interesse a fermarsi?
In verità non si riesce ad andare avanti. I Russi ci rispondono duramente, a sentire loro ci hanno mandato tutto e non vogliono esaudire ulteriori richieste. Per loro la questione è chiusa. In passato siamo stati fortunati ad avere avuto Gorbaciov. Con lui c’era stata una certa apertura e i documenti arrivavano. Adesso è tutto chiuso. Anche quegli studiosi che prima avevano accesso, come la professoressa dell’Università di L’Aquila, Maria Teresa Giusti, non riescono più ad accedervi.
Maria Teresa Giusti ha fatto un grosso lavoro di ricerca. Il suo libro è una fonte interessantissima di dati e di citazioni. Un libro che è un importante lavoro scientifico.
Sì, un gran lavoro. Lei era già laureata, mi pare in lingue, in russo, però voleva ampliare il discorso storico. Mi ha conosciuto, ha letto il mio libro e da lì è nata la sua passione per la campagna di Russia. Nella sua tesi di laurea analizza la mia esperienza in Russia e nei campi di prigionia.
Ho visto che cita anche gli atti del processo a D’Onofrio.
Sì. Prende spunto da diverse testimonianze. Anche lei non riesce ad avere più accesso agli archivi sovietici.
Sia l’associazione U.N.I.R.R. sia il Ministero, così come gli storici, hanno studiato ed esaminato ormai tutto il materiale importante in merito al numero dei soldati italiani in Russia, considerando la documentazione raccolta fino ad oggi. È stato scritto tutto e analizzato in modo completo ciò che si ha a disposizione?
Per quel che mi riguarda ho lavorato con Onorcaduti, ai tempi del generale Gavazza, che era stato capo del corpo d’armata alpino (non del fronte russo ma in tempi recenti). Quando, nell’arco di un anno, arrivò questo materiale d’archivio, lui radunò i pochi reduci alpini che erano qui a Roma. Fra questi vi ero anche io; il generale Gavazza ci consegnò il materiale dicendoci di organizzarlo.
Oltre a lei, chi partecipò a questa sistemazione?
C’era un maresciallo dell’aeronautica, di cui non ricordo il nome, ed altri reduci che abitavano a Roma ma che non erano romani.
C’era anche Felici in questo gruppo di reduci?
Quale Felici?
Alfonso Felici!
Ma quello è un millantatore.
Perché? La sua vita di soldato sembra incredibile.
Quello che lui racconta sulla Russia non è vero niente. Secondo lui ha combattuto anche contro i Giapponesi.
Non è vero nemmeno l’episodio della mina sul carro armato per il quale gli diedero una medaglia?
No, secondo me non risulta da nessun reparto alpino che abbia fatto la Russia.
Lei dubita quindi addirittura che l’abbia fatta?
Sì. I millantatori partono da questo presupposto: dal momento che non risulta da nessuna parte, possono dire di avervi partecipato.
Sembra incredibile.
A Milano se ne presentò uno che millantava di essere stato nel Monte Cervino.
In quel caso però era più facile capire se diceva la verità, era il suo battaglione.
Certo, era il mio battaglione. Tutti credevano a questa storia tanto che riuscì a farsi dare un paio di medaglie. Aveva incantato anche quelli dell’ANA. Quando me lo hanno presentato però ho cominciato a dubitare. Gli feci un po’ di domande. Gli chiesi quale fosse il suo compito e lui mi disse che era nel plotone comando. Allora gli chiesi chi fosse il comandante e lui mi rispose che non se lo ricordava perché c’era stato poco tempo. Gli chiesi quindi dove lo avessero mandato e lui disse che gli fecero fare l’autista al generale Nasci. Ora, che dal battaglione sciatori Monte Cervino, lo mandassero a fare l’autista di Nasci non era credibile per cui cominciai a capire che qualcosa non tornava. Poi scoprii che era nato nel 1924 e in Russia non venne mandata quella classe. L’ultima a partire fu quella del 1922. Aveva stretto contatti con un ufficiale che fu anche presidente dell’Ana di Milano il quale cercava di tollerarlo, ma fondamentalmente era un millantatore.
Che interesse si ha a fregiarsi di tante medaglie con l’inganno?
C’è gente che quando fa le adunate si riempie il petto di medaglie. È un modo come un altro di mettersi in mostra. C’è chi le indossa pur non essendo roba propria.
Tornando allora a Felici, come le sembra possibile che, se non ha fatto addirittura la Russia, lo abbiano invitato a fare un’intervista e un documentario?
Perché i giornalisti sono degli sprovveduti. Questo, per esempio, è un articolo dove addirittura scrivono che questo reduce è l’unico ad essere sopravvissuto della Julia. Tanto per farle capire come vengono scritti gli articoli.
Devo ammettere che sembra uno dei pochi che tiene a ricordare che la ritirata di Russia non è stata fatta solo dagli alpini così come tiene a dire che i caduti non ci sono stati solo nella ritirata ma che, anzi, ce ne sono stati di più in prigionia. Sulla prigionia si glissa sempre un po’, la si accenna ma non si approfondisce mai. Forse perché è scomodo dover dire che i soldati italiani sono caduti in mano “nemica”! Lei cosa ne pensa?
La motivazione è facilmente individuabile. Sono in molti, specie i militari di carriera, a sostenere che non bisogna evidenziare che abbiamo perso. Spesso mi danno addosso perché dicono che io “sputtano l’esercito” e certe cose non bisogna dirle. Ma io questo atteggiamento non lo condivido, io non sono nell’esercito e sono uno che è stato semmai sfruttato dall’esercito e dico come sono andate le cose.
Credo che ci voglia equilibrio.
Io non pretendo di fare lo storico ma racconto come sono andate le cose. Anche sulla questione del cannibalismo mi ripetevano spesso “ma sei sicuro?”.
Non è il solo ad avere raccontato quegli episodi! In effetti è molto complicato riuscire a essere obiettivi in ciò che si scrive quando si raccolgono testimonianze. Da quando è nato il sito mi sono sempre chiesto se sia giusto evidenziare delle parti e sottenderne altre. Ho sempre pensato che ci voglia una certa attenzione nell’uso dell’informazione.
I primi libri che sono usciti sulla campagna di Russia sono stati quelli di Rigoni Stern, quindi Tridentina, Di Bedeschi con la Julia. Di Corradi, Revelli. Tutti alpini. Sulla Pasubio, sulla Torino, almeno inizialmente, non fu scritto nulla. L’unico libro di successo che parla della ritirata non alpina è quello di Eugenio Corti, “I più non ritornano”.
Lei lo ha conosciuto Corti?
Sì, ho avuto modo di farci qualche discussione. Il libro di Rigoni Stern comunque rimane probabilmente uno dei libri più belli. Lui ha raccontato la campagna di Russia – non è esatto dire che l’abbia romanzata – con uno stile che si legge volentieri.
Rigoni Stern ha avuto il merito di aver avvicinato la gente alla campagna di Russia. Ma questo ha forse anche creato un certo divario nello stile tra quello che è stato Rigoni Stern e la scrittura di testimonianze. Quella di Rigoni è vera e propria letteratura, l’altra è testimonianza spesso scarna e diretta.
Come dicevamo prima, comunque, dopo questi grandi libri, c’è il deserto. Non ci sono libri sui bersaglieri che abbiano lasciato il segno sul grande pubblico come quello di Rigoni o di Bedeschi.
A dire il vero libri sui bersaglieri in Russia ci sono stati ma certo non hanno avuto quella risonanza degli scrittori citati prima. Come si spiega allora, anche se non è difficile darsi una risposta, che la campagna di Russia venga inevitabilmente associata alla ritirata degli alpini?
Questo è il motivo per il quale, quando vado nelle scuole a dare la mia testimonianza, la prima domanda che faccio, sia agli alunni che alla stesse professoresse, è proprio questa: “Cosa ne sapete della campagna di Russia?” E sistematicamente mi rispondono che “C’è stata la ritirata degli alpini”.
È proprio vero allora che, così come si dice che la storia la scrive chi vince, allo stesso modo la testimonianza la fa chi ha i mezzi per scriverla? Il prof. Pignato, nell’intervista al 120°, giustifica questa massiva letteratura alpina con il fatto che, essendo tutti del nord, fossero più istruiti e quindi più preparati per poter scrivere un libro.
Mah, al sud c’erano comunque bravi scrittori.
Consideriamo comunque che il corpo alpino è nella sua tradizione un gruppo coeso.
Questo è vero.
Quindi in una comunità così forte penso sia più facile trovare le risorse per pubblicare ed avere quindi una propria visibilità anche sganciata dall’editoria che conta. Non crede?
Non so se sia del tutto vero. Ho l’impressione che l’esercito italiano fosse mal preparato, gli ufficiali non erano preparati, anche sotto il fascismo. Ai tempi si privilegiavano alcuni corpi, hanno privilegiato l’aeronautica, la marina, i bersaglieri e solo dopo la campagna di Grecia gli alpini si sono conquistati una certa fama. Anche lì l’opinione comune ha percepito che, a causa del sacrificio della Divisione Julia, fosse una campagna di guerra combattuta quasi solo dagli alpini.
Una certa “responsabilità” gli alpini l’hanno, anche se indirettamente, nell’aver parlato solo ed unicamente delle loro gesta. Poi certo non è che si possa addossar loro la colpa di aver scritto tanto su loro stessi. Ma io credo che nel momento in cui si ha l’opportunità di avere una certa visibilità si ha anche il dovere di ampliare il discorso e non lasciare che quello che si racconta diventi “il racconto”.
Un altro aspetto che non capisco, ma credo sia un problema che riguarda anche la memorialistica di altre guerre, è quella dell’esaltazione dell’eroe. Qual è la necessità di insistere sull’idea dell’eroe per cui si può parlare di un soldato solo se ha fatto atti eroici altrimenti è meglio che non se ne parli?
È questione di retorica! È un aspetto che ho sempre combattuto. A mio avviso ce n’erano a centinaia di eroi, tutti quelli che sono morti sono stati eroi. Purtroppo però non sono conosciuti dai “distributori di medaglie” e nessuno lo sa.
Ricordo un documentario dove fu intervistato un ufficiale tedesco, Ernst-Georg Von Heyking (tenente della 24a Panzer Division tedesca), il quale disse: “Oggi pensare che le medaglie siano il frutto del sangue dei soldati mi ripugna.”
Le dirò di più, le racconto un fatto che la dice lunga su come venivano gestite a volte le medaglie. Ritornati dalla prigionia, capitava che noi reduci ci si ritrovasse qui a Roma per stare un po’ insieme, per andare a cena. In una di queste occasioni mi capitò di incontrare una persona che lavorava al Ministero e, questo signore, a un certo punto, mi chiese che medaglia avessi. Io ho due medaglie di bronzo. Tentò di propormi un cambio: dalle medaglie di bronzo a una d’argento. Pensai fosse una pazzia solo l’idea della proposta. Mi disse che sarebbe stato un gioco da ragazzi. Rifiutai categoricamente. Come avrei mai potuto presentarmi con la coscienza pulita ogni volta che entriamo nella chiesetta che abbiamo costruito a Breuil Cervinia, ai piedi del Monte Cervino, dove tutti gli anni, il primo luglio, il nostro battaglione, il Monte Cervino, si riunisce per celebrare una messa? Non avrei mai potuto accettare e invece molta gente segue questi espedienti per farsi attribuire medaglie che non gli spettano.
Continuiamo un momento a parlare ancora degli alpini. Gli alpini sono davvero “i più bravi”, i più preparati?
No, non credo sia da porre in questo modo, non è che siano “più bravi”. Hanno una preparazione di base che li privilegia e che risale anche a prima di fare il militare e permette loro di avere qualche vantaggio in più. Vivere nelle vallate, dove è difficile vivere, dove non si trova tutto pronto, dove l’organizzazione è carente, richiede uno sforzo in più al quale gli alpini sono abituati, in quei luoghi ognuno deve arrangiarsi. Bisogna imparare a fare tutti i mestieri, imparare a risolvere i problemi ordinari. Sul libro traccio anche la figura dell’alpino.
Quando eravate in prigionia vi inoltrate in una discussione con un prigioniero italiano del nord, che sosteneva che “l’alpino è come il napoletano”. L’arte di arrangiarsi nelle situazioni di difficoltà.
Esattamente, volevo arrivare proprio a questo punto, a quando lui mi dice: “I tuoi alpini dovevano avere sangue napoletano nelle vene.” Giusto! Quando c’è la necessità, quando ti trovi in difficoltà, e nel meridione è endemico, la testa la fai lavorare per trovare una soluzione.
L’alpino non è un uomo che si può costruire, ha già una sua identità!
Sì. È già costruito, ha già una sua identità: ha un senso di solidarietà innato, sa vivere da solo e arrangiarsi da solo, non ha bisogno di pensare alle difficoltà che si presenteranno perché sa che nel momento in cui capiteranno avrà una soluzione per superarle. Quando ero al fronte, sulla parte del fronte che era di mia competenza, c’era una mitragliatrice affidata a un caporale e a due o tre altri alpini che si davano il cambio. Io sapevo che dei miei alpini, di quegli alpini, mi sarei potuto fidare. Sapevo che la mitragliatrice era in buone mani. Ero sicuro di quella gente lì. Quegli alpini, anche senza un ufficiale, senza nessuno che gli dicesse cosa fare, sarebbero stati in grado di cavarsela da soli. Anche di fronte a una grave difficoltà erano in grado di affrontarla, non si sarebbero mai tirati indietro nonostante ci fosse stata la possibilità di farlo. A proposito di darsi prigionieri, una volta, la figlia di un reduce abruzzese ormai deceduto, scrisse un libro sul padre dove confessava che si era dato prigioniero. Mi chiese di fare la recensione ma io non accettai. Non avrei potuto avallare quel gesto, lei tentò di impietosirmi dicendo che suo padre aveva solo vent’anni ma le spiegai che tutti i soldati allora avevano vent’anni.
È sconveniente recensire il racconto di un soldato che si è dato prigioniero? Non può esserci una ragione che possa giustificare un gesto del genere?
Be’, avrei dovuto stroncarlo. Non mi sembrava il caso, ho ritenuto opportuno non accettare.
Tornando al nostro discorso. La differenza tra un alpino e un altro soldato è che l’alpino conosce l’arte del “sapersi arrangiare”.
Sì. Inoltre gli alpini, forse, sono spesso anche polemici. Penso ai bresciani, ai bergamaschi così come ai friulani, che si arrabbiano molto facilmente.
Nel libro emerge questa sua doppia identità geografica, per metà trentino (di Bolzano) e per metà romano.
In verità sono “esiliato” a Roma. È successo così: Mussolini, negli anni Trenta, ha voluto italianizzare l’Alto Adige. Cominciò con costruire monumenti e proseguì con l’insediamento delle industrie italiane nel tentativo di estirpare l’identità degli abitanti ma non poté eliminare né i contadini, né i commercianti, né altro. Una delle prime cose che ha fatto è stata quella di trasferire gli impiegati che erano appartenuti all’ex impero austroungarico, sostituendoli con gente delle vecchie province. Come tutti i trentini, mio padre aveva combattuto sul fronte russo con l’esercito austriaco. Mio padre, che era alle poste, nel 1929 venne trasferito e, nel giro di una settimana, ci trovammo a Casale Monferrato. Mia madre era a disagio, tutta la gente parlava un incomprensibile dialetto. Mio padre quindi fece domanda di trasferimento e, per toglierselo di torno, gli chiesero se volesse andare a Roma. Lui rispose di sì. Dal momento che, come tutti i trentini, conosceva bene il tedesco ebbe vita facile.
Come ricorda quel periodo a Roma?
Come tutti i ragazzi eravamo entusiasti. Frequentavo il GUF (Gruppi Universitari Fascisti n.d.t.), la partecipazione attiva era l’unica maniera per fare sport, per fare montagna. Se ho potuto fare montagna a Roma, perché la montagna trentina mi mancava, era per questo attivismo. I miei parenti sono rimasti invece lì, chi aveva un lavoro autonomo era rimasto lì, albergatori, contadini…
Quindi ha vissuto quel periodo in maniera naturale.
Voi giovani non l’avete vissuto ma effettivamente era così: ci trovavamo come si trovavano i Tedeschi in Germania o gli stessi Russi in Unione Sovietica. Conoscevamo solo quello. C’erano due giornali soli, non sapevamo nulla di quello che succedeva al di fuori della nostra realtà. Un paio di mesi fa mi sono recato in Trentino e, una sera, fui intervistato da uno per un paio d’ore. Mi fece una sfilza di domande, fu un “terzo grado”. A lui non interessava sapere quello che avessi fatto. Disse: “A me interessano impressioni, stati d’animo.”
Le interviste si possono fare a vari livelli.
Infatti le domande erano del tipo: “Quando ha ricevuto la cartolina rossa, cosa ha pensato?” Io la cartolina rossa non l’ho ricevuta. Sono del 1917 e avevo rimandato il servizio militare per questioni di studio. Quando finii l’università, nella sessione autunnale del 1940, mio fratello – che era del 1921 – fu chiamato alle armi; a me invece arrivò la cartolina per il servizio di leva. Le domande proseguivano su quel tono: “Perché non ero partito se eravamo in guerra?” Io, prima di partire per la guerra, avevo fatto il corso allievi ufficiali e allora continuava a chiedermi… “Cosa aveva provato?”, “Quando ha visto i primi morti?”… Insomma, di film ne avevamo visti anche noi!
Mi pare di capire che lei non ami indagare i suoi stati d’animo, la sua reazione a un fatto di rilevante importanza.
No, non è questo. In verità avevo capito che il suo indagare era un voler probabilmente portare la conversazione verso un discorso pacifista. Continuava a chiedere della reazione di mia madre… allora tutte le madri sapevano che i figli sarebbero andati a fare il militare, nessuno si faceva domande su cose ovvie. Insisteva: “Ma lei scriveva lettere alla sua famiglia?”, io le scrivevo tutti i giorni. “E cosa rispondeva?” e giù con domande di questo genere… “Il battesimo del fuoco com’è stato?” Una volta ci hanno mandato di corsa a sostituire un battaglione di bersaglieri a Jagodnyj, nella zona in cui avvenne la carica di Izbušenskij. Arrivati, ci mettemmo in posizione e lì vidi per la prima volta le katiusce. Sembrava la fine del mondo.
Che potere hanno le katiusce? Dai racconti sembrerebbe trattarsi di un’arma psicologica, che tende cioè a disorientare con il suo frastuono piuttosto che avere un potere devastante in termini di impatto con il suolo.
Intanto è un’arma contro la fanteria che non ha potere demolitore. I missili sono cilindri di circa un metro, metà è propellente e il resto è esplosivo. Quando impatta a terra esplode e fa molto rumore, viene fuori una grandissima fiammata, un solo razzo contiene una quantità di esplosivo venti volte quella di una granata da 75. È impressionante quando arriva: le scie luminose navigano sopra le teste con un rumore assordante, fenomenale. Poi con il tempo si impara a conoscere e ci si abitua anche a quelle.
Perciò l’effetto disorientante è forte.
Sì, perché non sai dove vanno a finire. Sono molto imprecise, coprono lo spazio di un centinaio di metri di territorio. Di solito sono una dozzina di colpi anche se qualcuno parla di ventiquattro colpi, ma sono tutte balle.
Stabilirne il numero però non deve essere difficile, basterebbe contare le sedi, i binari montati sui camion dai quali vengono lanciati.
Come noi avevamo le batterie, quelle che ho visto io (sotto forma di rottami durante l’avanzata e in funzione, quando fui catturato) avevano un numero preciso di armamento, loro prendevano sei camion e con quelli lanciavano le katiusce. Queste avevano il grandissimo vantaggio che, essendo piazzate su un camion, dopo avere sparato i colpi si spostavano velocemente di cento metri e non subivano la controbatteria.
Avevate solo la possibilità di buttarvi a terra.
Sì, schiacciati a terra a pelle di leone. Però erano più pericolose le bombe di mortaio.
Perché erano più precise?
Sì, erano più precise. Le schegge erano più grosse. Mentre il proiettile d’artiglieria si infila nel terreno, per cui il cono di esplosione è meno aperto, è più verticale, la granata di mortaio si squarcia appena tocca il suolo e quando ci si butta bisogna stare incollati pancia a terra e sperare di essere il più lontani possibile dall’esplosione per non essere colpiti dalle schegge.
L’armamento russo, è assodato, era di gran lunga maggiore.
Erano certamente più forniti di noi.
Si dice che l’esercito italiano doveva lesinare i colpi, doveva contarli, mentre i Russi sparavano quello che volevano.
La raccomandazione più ripetuta era quella di risparmiare munizioni. Quando eravamo a Jagodnyj (nel 1942 ci siamo stati tutto agosto e tutto settembre se non erro) ogni giorno c’erano morti o feriti. Dall’altra parte i Russi avevano piazzato una batteria di mortai e tutti i giorni sparavano la loro giornata di fuoco, una quarantina di colpi. Cambiavano l’ora, la posizione, le modalità. Poteva quindi capitare a ogni orario.
I Russi in quel caso facevano un’azione di routine.
In effetti noi, quando finivamo i colpi, dovevamo aspettare che ci venissero portati dalle vicine retrovie. I rifornimenti non erano immediati.
Gli Italiani erano dipendenti dai Tedeschi per quel che riguarda il rifornimento d’artiglieria.
Sì. Eravamo dipendenti dai Tedeschi per tutto il traffico proveniente dall’Italia perché le ferrovie le gestivano loro, che di noi se ne fregavano. Sono sempre stati delle carogne, pensavano a rifornirsi prima loro. Per loro eravamo un alleato di carta. D’altronde non andavano d’accordo Americani e Inglesi, figuriamoci se noi potevamo andare d’accordo con i Tedeschi.
Vista la considerazione dei Tedeschi per l’esercito italiano trovo ancora più assurdo il fatto che gli Italiani, i Rumeni gli Ungheresi siano stati schierati dai Tedeschi su un fronte così lungo. Se gli eserciti italiani non erano affidabili, a loro giudizio, come mai allora li diluiscono su un fronte così lungo e senza riserve?
Non avevano nient’altro a disposizione. Hanno voluto puntare la loro forza su Stalingrando dando un peso ideologico al loro assedio e pensando che i Russi avrebbero radunato le loro forze intorno a quella città e, invece, li hanno fregati.
Stalingrado è stata una guerra casa per casa, corpo a corpo.
Tremenda!
Ma da parte di un esercito che aveva piegato ormai mezza Europa è incredibile constatare un errore del genere. I Tedeschi – secondo un calcolo approssimativo – schierarono sul medio Don un soldato ogni sette metri. Una difesa di sabbia!
A loro non bastava avere un fronte che partiva da Murmansk fino al Mar Nero. Vollero strafare spingendosi fino al Caucaso. Si parla di duemila, tremila chilometri di fronte.
I Tedeschi avevano la percezione che l’arretramento russo fosse dovuto all’insufficienza di forze o alla loro debolezza?
Direi alla loro debolezza.
Mentre i Russi avevano attuato, ancora una volta, la tattica della terra bruciata. Ma possibile che i Tedeschi non avessero idea di quali forze fossero schierate dall’altra parte e quindi della potenza russa?
No, non credo ne sapessero molto.
È dunque lecito pensare che i Tedeschi schierarono l’armata italiana a cordone in modo da sollevarsi da ogni responsabilità al momento di un’eventuale disfatta?
No, non credo. Ma la colpa ce l’hanno comunque data lo stesso. Noi ufficiali italiani, in prigionia, abbiamo sempre litigato con gli ufficiali tedeschi su questo punto. Loro dicevano che la colpa era nostra ma noi ribattevamo dicendo che era il loro capo che ci aveva affidato 300 chilometri di fronte. Le nostre divisioni di fanteria avevano 12.000 uomini, dunque 400 uomini/km dei quali, sì e no, la metà in prima linea.
Loro come rispondevano a questa affermazione?
Sostenevano che noi eravamo scappati, che non avevamo resistito. E noi a ribattere: “Perché voi? Siete riusciti a resistere a Izjum?” Ad aprile 1942 i Russi sfondarono il fronte tedesco e crearono una sacca che arrivò a minacciare Dnepropetrovsk.
IIn ogni caso i Tedeschi si sono ritirati come gli Italiani; la 298^ divisione tedesca, che era fra le divisioni italiane, ha battuto ritirata alla stessa maniera delle divisioni italiane. Oltretutto i Tedeschi riuscivano anche a ritirarsi prima perché possedevano i mezzi motorizzati.
Il Monte Cervino, rispetto agli altri battaglioni alpini, arriva in Russia prima e viene impiegato spesso a sostegno di altre divisioni.
Sì. Arriva prima, in inverno, quando il CSIR era nella zona mineraria del Donetz. La guerra era ormai di posizione, si era fermi sia dall’una che dall’altra parte. In quel momento c’era bisogno di azioni di pattugliamento, di esplorazioni. Avevano bisogno di sciatori, di un corpo che potesse muoversi sulla neve. Così, nel 1942, mandarono il Battaglione Sciatori Monte Cervino, cui aggiunsero un reparto di istruttori con il compito di organizzare pattuglie di sciatori nei battaglioni di fanteria.
Quando è partito il Monte Cervino lei non c’era però.
No, non c’ero, sono partito dopo con il primo scaglione di complementi (4 ufficiali e 40 alpini) a metà aprile 1942.
Tra luglio e agosto 1942 ci sono azioni di guerra dei bersaglieri e del 120° reggimento artiglieria motorizzato alle quali partecipa anche il Monte Cervino.
Sì, ma noi in quella zona siamo arrivati dopo i fatti di Serafimovič, quando c’è stata la rottura del fronte della Sforzesca. Tutta la divisione Celere era stata allarmata e noi arrivammo di rinforzo da Millerovo. Demmo il cambio a un reparto del 3° bersaglieri su una quota poco più a nord di Jagodnyj.
Piuttosto indietro!
Sì, da Millerovo arrivammo di corsa, ci trasportarono in camion.
Avevate mezzi vostri?
Non avevamo mezzi a sufficienza, avevamo 10 camion e 10 autocarrette.
Si ricorda che camion avevate?
Sì, i Lancia Ro NM, avevano il muso dritto con accensione a manovella mi pare. Quando è arrivato in Russia il Cervino, aveva solamente i muli. Poi gli hanno aggiunto, verso marzo 1942, la (80a n.d.t.) compagnia armi d’accompagnamento con i controcarro 47/32 che non avevano nemmeno lo scudo.
Trainati come?
Caricati sul camion. Insieme al Cervino mandarono una compagnia di un centinaio di uomini che erano istruttori di sci prelevati alla scuola alpina e che dovevano insegnare a sciare alle pattuglie della Torino e della Pasubio. Rigoni Stern era andato con quelli. Infatti non ha combattuto con il Monte Cervino. Poi, quando a maggio la neve si sciolse Rigoni Stern rientrò in Italia insieme agli altri istruttori. Fu in seguito trasferito al Val Chiese e, tornato in Russia, fece la ritirata con la divisione Tridentina (dovrebbe trattarsi di un lapsus del Dott. Vicentini: Rigoni Stern partecipò alla campagna di Russia con il battaglione Vestone e non con il Val Chiese, n.d.t.).
Come mai ci fu una seconda spedizione di uomini per il Monte Cervino?
Perchè avevano già perso una quarantina di uomini e quattro ufficiali in due azioni del marzo e del maggio, ma ci furono altri arrivi di complementi, l’ultimo la prima settimana di gennaio 1943.
In che zona?
A Stàlino a marzo, mentre a Izjum a maggio. I Tedeschi erano riusciti a fare una grande testa di ponte, lunga una ottantina di chilometri e larga una ventina, arrivando quasi a Dnepropetrovsk. Avevano allungato il fronte di circa duecento chilometri. In quella occasione i Tedeschi avevano chiesto a Messe di dare aiuto, così mandò il Monte Cervino, elementi del Btg. Pontieri… praticamente a farsi massacrare.
Che generale era Messe? Lo ha conosciuto?
No, non l’ho conosciuto. Era uno in gamba, che si faceva sentire. Si arrabbiava, sapeva farsi rispettare dai Tedeschi, batteva i pugni. Gariboldi invece era senza vigore.
Di Gariboldi in molti parlano male. Soprattutto Galeazzo Ciano nel suo diario.
Non lo so, non l’ho letto.
Quando Ciano scrive di Gariboldi usa tutti i possibili aggettivi dispregiativi definendolo sostanzialmente un servo dei Tedeschi, uno che si prestava al loro gioco, capace di vendere la patria pur di mantenere il suo posto, il suo prestigio e proseguire la sua carriera.
C’è da dire che tenere testa ai Tedeschi non era facile. Ma certo Gariboldi, a differenza di Messe, non aveva le carte in regola per potersi confrontare con loro.
Ciano insiste nel considerarlo un inetto. Il diario di Ciano è molto interessante, soprattutto per i retroscena nei rapporti tra Italiani e Tedeschi. Si nota chiaramente come il fascismo, come Mussolini e lo stesso Ciano, pur mantenendo buoni rapporti di facciata, non sopportino ormai più l’alleato. Vi è un odio strisciante e a volte malcelato verso i Tedeschi considerati alleati di cui, ormai, non ci si può più fidare soprattutto quando si tratta di prendere decisioni importanti come l’invasione della Russia, occasione in cui non si degnano nemmeno di avvisare l’alleato.
I Tedeschi furono scorretti anche dopo.
Il cambio da Messe a Gariboldi fu forse un modo di estromettere un generale scomodo?
Quando ci fu il cambio, il CSIR venne mantenuto diventando XXXV Corpo d’Armata. Le divisioni Pasubio, Torino e Celere rimasero sotto il suo comando ma subordinate a Gariboldi.
C’è da dire però che Messe non approvava l’invio di un’armata italiana in Russia, avrebbe preferito consolidare il CSIR e, almeno inizialmente, aveva espresso parere contrario.
Tutti erano contrari.
Mussolini invece non volle sentire ragione, impose il suo volere, il suo voler esserci a tutti i costi con un numero maggiore di soldati.
Il problema è che quando non comandano più i militari e non si dà loro ascolto e, a questi, si sostituiscono i politici che impongono la loro idea senza avere cognizione di quale sia la situazione sul campo, succede quel che è successo.
Hitler infatti, quando la situazione in Russia diventa critica dichiara “I generali non capiscono niente di strategie militari”. Attaccando così i generali che cercano di farlo desistere da una resistenza ad oltranza. Questa la dice lunga sul clima in cui erano costretti a muoversi i militari.
Infatti ha fatto una fesseria dietro l’altra.
Quando avviene lo sfondamento delle linee delle divisioni di fanteria dell’ARMIR, il Monte Cervino dove si trovava?
Noi eravamo a Rossoš’.
Cosa succede in quei giorni?
Ci hanno mandato subito a dare manforte alla divisione Cosseria. Quando la divisione Cuneense si ritrovò i Russi a Novo Kalitva, si preoccuparono subito. Pensarono che se i Russi erano arrivati lì voleva dire che qualcosa era accaduto e che c’era il rischio di essere presi alle spalle. Quindi pensarono di inviare un corpo di intervento. Mandarono prima il Monte Cervino a vedere cosa fosse successo e poi, avendo capito che era necessario un gruppo di intervento, prelevarono dalla Julia i battaglioni di riserva dell’8° e del 9° reggimento alpini: il 9° aveva il battaglione L’Aquila, mentre l’8° il battaglione Tolmezzo.
Ci mandarono in gran fretta. Il giorno 19 dicembre 1942 da Ivanovka mi ero messo in quota a guardare con il cannocchiale e vedevo avanzare colonne interminabili di automezzi e carri armati russi che correvano verso sud. L’armata rossa aveva sfondato le linee italiane il giorno 16. A Kantemirovka (60 km dal Don) ci arrivò il 19, cioè solo tre giorni dopo.
Senza trovare nessuna resistenza.
No, nulla.
La Cosseria cosa fa quindi?
Quando siamo arrivati a Ivanovka, sede del comando dell’89° reggimento (Cosseria), non c’era più nessuno. La divisione Cosseria non era più in grado di opporre resistenza, non esisteva più. A seguito dell’urto dei Russi si era disintegrata, era un caotico via vai. Lì ho capito cosa è stata la prima guerra mondiale a Caporetto. C’era tutta la strada piena di soldati a piedi o con i camion che si ritiravano verso ovest.
Perché secondo lei regnava ormai il caos? Perché i comandanti si erano dileguati?
Hanno mollato tutto a causa della pressione russa. Sul fronte del Don devono aver fatto un sacco di morti perché ci furono un paio di giorni di bombardamenti. L’artiglieria e gli aerei russi prima dell’attacco hanno tempestato la nostra linea per 12 ore consecutive con centinaia di pezzi. Ma rotta quella barriera di resistenza, dietro di loro, era campo libero.
Quindi cosa riusciste a fare, voi del Cervino? Constataste solo quello che accadde?
Insieme a noi si era ritirato il 52° tedesco. Il nostro comandante di battaglione mi disse che avrebbe dovuto avere ordini dal II Corpo d’Armata e, visto che non c’era, si sarebbe messo a disposizione dei Tedeschi. Ma i Tedeschi cominciarono subito a fare le carogne. Ci dissero di occupare una certa posizione davanti a Ivanovka, ma subito dopo ci siamo accorti che ai nostri lati i Tedeschi non c’erano più, se n’erano andati lasciandoci soli. Avevano ritirato la truppa, la fanteria, mantenendo l’artiglieria in posizione più arretrata. Il mio comandante a quel punto, visto che parlavo tedesco, mi prese come interprete e mi portò con sé. Ci dirigemmo in un’isba dove c’era il consiglio di guerra dei Tedeschi. Entrato nell’isba disse “Sono il comandante del battaglione italiano, mi avete dato l’ordine di occupare le quote. Perché vi siete ritirati e non mi avete detto niente?” Loro tergiversavano ma il mio comandante si tolse dal collo la croce di ferro tedesca, quella con gli allori, che vale una nostra medaglia d’argento, e la sbatté sul tavolo dicendo: “Non so che farmene della vostra medaglia se poi mi trattate in questa maniera.” Lì c’era il famoso generale Eibl che, in seguito, collaborò molto con noi. Se non facevi la voce grossa con i Tedeschi non venivi rispettato.
Dal suo racconto si ha un’idea più chiara di quello che succedeva al momento di uno sfondamento.
Nei rapporti ufficiali infatti si legge spesso: “I Russi crearono dei varchi.” Ma quali varchi? Quando sfondavano le linee non esisteva più nulla. In quel caso si sono ritirati tutti in massa. I Russi attaccarono su diversi punti contemporaneamente: sulla Cosseria, su Verhnij Mamon, dove avevano già due divisioni in corrispondenza della Pasubio e della Celere.
In quel punto avevano una testa di ponte al di qua del fiume.
L’errore è stato la mancanza di rinforzi, delle seconde linee. La stessa cosa avvenne dove avevano ammassato due divisioni, nella zona del Don detta “cappello frigio” dove era posizionata la Pasubio, divisione che combatté un po’ più energicamente delle altre anche se uno dei comandanti scappò. La Torino e la Sforzesca invece non furono toccate dallo sfondamento diretto ma, essendo stata attaccata la Celere, anche loro hanno dovuto ritirarsi.
Le divisioni che venivano a conoscenza di uno sfondamento nel tratto di fronte tenuto da una divisione a loro adiacente, una volta accertata l’incursione russa, non potevano far altro che ritirarsi e abbandonare il fronte.
Sì, ma questo aspetto solitamente non viene preso in considerazione.
Ma è vero che gli alpini di tutto quello che stava succedendo al resto dell’ARMIR, non si accorgono di nulla?
Bisogna considerare che un sottotenente o un comandante di compagnia non può far altro che guardare a vista, non ha una visione molto ampia del territorio. Oltre il suo sguardo non può vedere, non sa nulla di quanto avviene, oltre a quello che può vedere con i suoi occhi. Quando si saliva di grado, si era più informati e si sapeva un po’ di più degli accadimenti. In questo caso spesso non veniva divulgata la notizia per tenere alto il morale della truppa e per evitare disordini. I reduci della Tridentina comunque lo raccontano, dicono che sentivano giorno e notte continui bombardamenti.
Considerando le azioni di guerra alle quali partecipò il 120° reggimento artiglieria motorizzato e quelle del Monte Cervino, è piuttosto probabile che abbiano combattuto insieme. Lei ricorda di aver partecipato ad azioni di guerra insieme a questi artiglieri?
No. Noi combattemmo con il 6° e il 3° bersaglieri solo in agosto, ma non avevamo contatti con la loro artiglieria.
Però è strano perché se voi avete avuto contatti con l’artiglieria della Divisione Celere, è molto probabile che abbiate usufruito della collaborazione degli artiglieri del 120° perché quel reggimento era reggimento di artiglieria a supporto del 6° e del 3° bersaglieri, era cioè artiglieria divisionale.
Non mi risulta, forse in agosto… ma tornando al discorso degli schieramenti, bisogna notare il criterio con il quale venne mandato in Russia il Corpo di Spedizione Italiano in Russia, il CSIR. Fu una pagliacciata: venne mandata la divisione Torino che è una divisione di fanteria così come la Pasubio, e insieme a queste, la Divisione Celere, formata da due reggimenti di cavalleria…
Inizialmente sì, era così.
…e da un reggimento bersaglieri. In appoggio ai bersaglieri e alla cavalleria misero le Voloire che avevano fatto la guerra turca mi pare.
Probabilmente fu inviata per contrastare la cavalleria cosacca. Com’era questa cavalleria rossa?
Tremenda. Io non l’ho mai incontrata, ma quelli della Cuneense lo raccontano perché sono stati attaccati e fatti quasi tutti prigionieri nella zona di Valujki. I Russi avevano grosse scimitarre. I reduci della Cuneense dicono che davano spesso delle piattonate che, senza ferire, ammazzavano lo stesso gente che stava in piedi per miracolo.
C’è una questione molto dibattuta, quella delle scarpe. Ancora oggi resta una questione aperta. La controversia ruota intorno al fatto che alcuni sostengono che le suole di queste scarpe/scarponi fossero fatte di cuoio vero, altri invece affermano si trattasse di cuoio autarchico. Di una suola composta da cascami di cuoio pressati e incollati, un materiale (cuoital) che poi ha fatto dire, con tono dispregiativo, che le scarpe erano fatte di “cartone”. Il Monte Cervino aveva scarpe Vibram e questo è un fatto accertato, ma come stavano le cose rispetto alle scarpe indossate dagli altri battaglioni e reggimenti?
Gli alpini avevano scarponi da montagna, la fanteria scarpe più leggere.
Mi passa un modellino di scarpone alpino
Qui mancano i chiodi sulla pianta.
Quelli più piccoli non sono stati inseriti in questo modellino. Queste però le avevano solo gli alpini.
Li avevano chiodati solo esternamente come questo modello o avevano i chiodi sulla suola?
Avevano i chiodi ovviamente per proteggere la suola dal logoramento dovuto al camminare per sentieri rocciosi, specialmente in discesa.
Intanto partiamo dal materiale. Era cuoio vero o cuoio autarchico (cuoital)?
C’era quello buono e c’era quello meno buono. A tutte le divisioni avevano cambiato le scarpe dopo l’inverno? La Cosseria, la Ravenna, la Sforzesca, sono arrivate in agosto (1942) e le hanno scaricate a Kharkov. C’è chi ha fatto 200/300 chilometri a piedi per arrivare sul Don. A queste divisioni le hanno mai cambiate le scarpe?
Però il vero dibattito è incentrato non tanto sui tempi di usura del cuoio ma se questo fosse vero cuoio oppure no. La questione delle scarpe sembra un punto cruciale per gli opposti modi di vedere la guerra, ci si divide nettamente, quasi ideologicamente. A sinistra si cerca di evidenziare la qualità scadente delle scarpe, mentre a destra si cerca di riabilitarle in toto asserendo che fossero di ottima qualità. Dove sta la verità allora?
Intanto il “cartone” è la retorica, lo dicono quelli che vogliono demolire l’immagine dell’equipaggiamento del regio esercito. Non credo che si fosse impiegato cuoio autarchico. Le scarpe della fanteria erano forse di cuoio vero, ma conciato per fare la guerra in Italia, non per farla in Russia dove gli uomini dovevano pestar neve, spesso profonda, per chilometri.
È chiaro che definirle “di cartone” è un’esagerazione, un modo per esasperare e ridicolizzare un equipaggiamento che però, forse, non era del tutto adeguato. Quello che viene definito cartone potrebbe invece essere il “cuoital”, materiale in voga nel periodo autarchico anche nella moda. Da quello che so questo materiale era in effetti fatto di cuoio ma di trucioli di cuoio incollati e pressati.
Ricorda se le scarpe dei soldati italiani avevano questo tipo di materiale o qualcosa di simile?
Prima di andare in Russia, a noi allievi ufficiali, avevano consegnato scarponi normali e li ho indossati per un anno. Posso dire che erano buonissimi. In Russia, gli alpini dei battaglioni avevano quegli stessi scarponi.
È possibile dunque che agli ufficiali venissero consegnate scarpe migliori e che alla truppa venisse invece data in dotazione altra qualità di materiale così come potrebbe darsi che, essendo in autarchia, si compensasse con altro tipo di materiale.
Secondo me c’è stato un problema di informazione sia in quello che hanno scritto i giornalisti che in chi scrive, ci si è spesso copiati l’uno con l’altro e questo ha portato a non fare chiarezza e a esagerare nell’esposizione. Dire, per esempio, che i chiodi portassero freddo all’interno è una balla enorme. Non eravamo mica dei fachiri che camminavano sui chiodi! La scarpa al suo interno è isolata dal chiodo. I chiodi servivano unicamente per non far consumare la suola di cuoio ma non entravano fin dentro la pianta del piede. All’interno c’erano due o tre strati di suola che isolavano dai chiodi. Oltretutto quelle scarpe erano della stessa tipologia di scarpe con le quali facemmo la prima guerra mondiale, semmai erano migliori.
Le Vibram invece com’erano?
Erano tutte un’altra storia. Avevano quello che oggi si definisce il “carro armato”.
Simili agli scarponi moderni.
Era lo stesso brevetto di Vittorio Bramani da cui viene il nome Vi-Bram. Erano scarpe da sciatore che avevano doppia chiusura. Indossavamo sempre quelle anche d’estate e con quelle mettevamo gli sci che non erano come quelli odierni. Avevano le ganasce. Le scarpe Vibram avevano la punta un po’ quadrata perché dovevano andarsi ad incastrare con l’attacco dello sci. Poi c’era una fascia che fermava la scarpa per non farla uscire verso l’alto, perché le ganasce non coprivano tutta la scarpa.
C’era una certa differenza di equipaggiamento tra gli ufficiali e i soldati del Monte Cervino?
L’abbigliamento era identico. La truppa aveva delle racchette pesantissime perché erano di ciliegio, noi invece le avevamo di bambù. Noi avevamo gli sci laminati mentre loro non li avevano. Ai tempi la laminatura non era una cosa per tutti, non era comune. Gli alpini avevano il moschetto come la cavalleria, i carabinieri, gli artiglieri; gli ufficiali e alcuni sottufficiali avevano il MAB.
Riportando il discorso al materiale delle scarpe è lecito pensare allora che, così come le racchette e gli sci del vostro reggimento differivano tra truppa e ufficiali, allo stesso modo il materiale usato per gli ufficiali in generale potesse differire da quello dei soldati semplici. Ed è possibile quindi che un ufficiale non sapesse con quale materiale era fatto l’equipaggiamento del soldato?
È possibile che un ufficiale alpino non sapesse cosa indossasse un corpo di fanteria ma doveva sapere bene cosa indossava il proprio soldato alpino. Io purtroppo non ho visto le scarpe di tutti i soldati non alpini, non avevo quel paio di scarpe e quindi non posso sostenere né l’una né l’altra tesi a riguardo dei materiali. C’è invece un altro problema da tenere in considerazione che ha portato spesso al congelamento. I soldati non avevano due paia di scarpe, una per l’estate l’altra per l’inverno. Per proteggersi dal freddo, erano costretti a indossare due strati di calze. Questa stratificazione aumentava il volume del piede costretto nella scarpa della stessa misura. La conseguenza era una cattiva circolazione del sangue che favoriva evidentemente il congelamento. Ma non possiamo dare una risposta precisa al riguardo, anche perché non conosciamo con assoluta certezza la gestione effettiva dei rifornimenti nelle retrovie, non sappiamo come sia andata veramente.
Si dice che, nelle retrovie, si tendesse a lesinare volutamente la distribuzione del materiale oppure che i rifornimenti non fossero sufficienti e bisognava distribuirli in maniera oculata. Nei racconti della ritirata i reduci però parlano di magazzini pieni di roba.
Sì, i magazzini erano strapieni. Lei deve procurarsi la relazione dello stato maggiore dell’Esercito sulla logistica. È un libro molto interessante, pieno di statistiche. Tutti i magazzinieri, dal più semplice sergente ai generali dell’Intendenza, soffrono terribilmente quando devono soddisfare le richieste, resistono, lesinano; hanno la convinzione che venga loro sottratto qualcosa che devono custodire.
Un’altra questione sempre aperta e quella del parabellum. Si dice, molto genericamente, che i russi avessero in dotazione il parabellum ma dicendo così si lascia intendere che lo avessero tutti. Può fare chiarezza lei che li ha visti?
Intanto li avevano le truppe russe motorizzate, quelle che accompagnavano i carri armati. Nei combattimenti ai quali ho partecipato con la Julia, a Zelenyj Jar, i Russi non avevano parabellum, avevano dei “fuciloni”. Si trattava di truppe caucasiche dotate di mitragliatrici montate su slitte.
Avevano un fucile simile al nostro fucile mod. 91?
Più lungo ma non era automatico. Alcuni avevano il cannocchiale, il caricatore aveva sei colpi. Quelli delle mitragliatrici alternavano traccianti, perforanti e incendiarie.
Ha idea della quantità di parabellum in dotazione all’Armata Rossa?
Non lo so, penso però che le fanterie d’assalto li avessero tutte.
Quante erano le fanterie d’assalto?
Lo erano tutte quelle che hanno sfondato le linee. Le fanterie che andavano al primo attacco erano quelle d’assalto.
Potrebbe allora essere questa la ragione per la quale si dice che i russi avessero tutti il parabellum? Perché appunto le fanterie che hanno sfondato le linee italiane erano, per la maggior parte, provviste di parabellum.
Non saprei.
Ha mai tenuto in mano un parabellum?
Sì, l’ho anche usato.
Rispetto al mitra in dotazione al Monte Cervino che differenza c’era?
Intanto il mitra del Cervino aveva dei caricatori per la maggior parte da 20 colpi, anche se ve n’erano da 30 o 40 colpi, mentre il tamburo del parabellum ne aveva più di 70 e aveva una velocità di tiro fantastica. Però era molto pesante.
Come mai?
Intanto 70 colpi pesano, e poi era un po’ sbilanciato e impreciso. Avevano un tamburo sotto la canna e a ogni colpo il bossolo veniva espulso. Era un’arma robustissima. I miei alpini ne trovarono uno sul fondo di uno stagno: premuto il grilletto partì una raffica.
Si possono chiamare indifferentemente fucile automatico e mitra, o hanno una denominazione precisa?
Il nostro era il Beretta, il cosiddetto MAB, Moschetto Automatico Beretta.
Chiamarlo mitra è improprio?
Lo si può chiamare anche genericamente mitra. La denominazione “parabellum” non so dove sia saltata fuori.
Lo spiega il prof. Pignato nell’intervista rilasciata al 120°: lo chiamavano “parabellum” perché aveva le pallottole simili alla cartuccia tedesca calibro 9mm parabellum, che identifica una cartuccia per arma da fuoco.
I Russi lo chiamavano PePeSha in russo “П.П.Ш.” Sono le iniziali del costruttore.
Il fatto che gli Italiani fossero mal equipaggiati per la stagione invernale lo si potrebbe attribuire alla convinzione che si fosse ormai certi che la guerra sarebbe stata breve e che quindi sarebbe finita nel 1941 e prima dell’inverno?
Mah! Quella era una valutazione che poteva andare bene fino ad agosto 1941. Poi, quando l’inverno era alle porte, si sarebbe dovuto fare qualcosa. Il fatto è che non si sarebbe dovuta mandare un’altra armata. I Russi aveva fermato i Tedeschi sotto Mosca, si erano ritirati ma avevano seguito una loro logica.
Tornando ai fucili c’e chi sostiene che il nostro fucile 91, cioè risalente al 1891, fosse stato usato effettivamente nella prima guerra mondiale ma era stato rimodernato per l’occasione e quindi poteva essere considerato un buon fucile adatto a quel tipo di guerra.
Non aveva bisogno di essere rimodernato. Era infatti un ottimo fucile per la guerra di posizione. Potevi lasciarlo anche fuori che sparava sempre.
Non è vero dunque che si inceppavano? I Mab si inceppavano? Lo stesso Alfonso Felici lo dice in una video intervista?
No, quello è un cretino! Non conosce nemmeno le armi che avevamo in dotazione. Quelle armi non si inceppavano. La nostra fanteria aveva in dotazione un certo numero di fucili mitragliatori FIAT, erano armi con un disco sopra e due piedini per sostegno, quelli si inceppavano. Le mitragliatrici Breda erano ottime, invece.
Si consulta il libro scritto da Vicentini “Rapporto sui prigionieri di guerra italiani in Russia”
Questo libro ce l’ha?
No. A dire il vero, dei libri scritti da lei, ho letto solo “Noi soli vivi”.
Troppo poco! Si legga questo allora, glielo regalo. Questo è il rapporto che facemmo noi reduci dell’U.N.I.R.R. per Onorcaduti.
Quanti anni avete lavorato per questo libro?
Dunque… dal 1993 al 1998.
Cioè negli anni in cui la Russia ha aperto le porte per la consultazione degli archivi.
Si, praticamente. Sul libro racconto com’e stata la prigionia ma faccio un resoconto della documentazione russa: dove erano i lager, statistiche, cartine.
Ha ampliato la testimonianza che aveva scritto già in Noi soli vivi?
Sì, ampliando il discorso. Ho voluto fare un po’ come fece Giulio Bedeschi con i libri Fronte russo c’ero anch’io. Lui ha interpellato i reduci che hanno raccontato ognuno a suo modo la propria esperienza ma nell’esporla, inevitabilmente, hanno tralasciato alcuni aspetti specifici. Io ho voluto invece separare le diverse fasi della prigionia dividendole in temi distinti: la cattura; le marce del davaj; i treni; i primi campi… riportando la testimonianza di diverse persone. (Giulio Bedeschi curò altre raccolte di testimonianze, oltre a Fronte russo c’ero anch’io, n.d.t.)
Ha realizzato sostanzialmente una pubblicazione analoga a quella di Bedeschi che ha raccolto testimonianze ma senza lasciare che il discorso subisse divagazioni.
Ho praticamente diviso per temi le loro testimonianze, spesso prelevate da libri o pubblicazioni edite, per dare un’idea più ampia e più precisa delle varie fasi della prigionia.
Ho visto che ha pubblicato diversi disegni sui suoi libri. Quando è nata questa passione per il disegno, dopo i fatti di Russia?
No, l’avevo già da prima. La passione per la cartografia ha un inizio un po’ buffo, ero diventato cartografo anche al fronte. Quando ero studente, ai tempi della guerra d’Abissinia, mi ricordo che facevo le cartine delle avanzate per qualche giornale, ma non ricordo più se fosse Il Messaggero o altro.
Dei Tedeschi abbiamo già parlato ma vorrei ritornare un attimo al rapporto di dipendenza che gli Italiani avevano, per esempio, riguardo dei prigionieri. Quando gli Italiani facevano prigionieri soldati russi, l’obbligo era di consegnarli ai Tedeschi. Ma come avveniva la procedura e, soprattutto, li consegnavate sempre?
Le norme erano quelle, ma i prigionieri cercavamo di tenerceli il più possibile perché sapevamo come li trattavano. Nelle nostre retrovie, quando si andava a Vorošilovgrad o in altre località, ci raccontavano del comportamento dei Tedeschi con i prigionieri. Nelle retrovie vi erano campi provvisori per i prigionieri, all’aperto, senza niente, dove venivano concentrati diecimila persone con dieci mitragliatrici a presidiare.
Anche nel periodo invernale?
No, questo nel periodo estivo per quel che ho visto io. Noi comunque ce li tenevamo perchè erano utili, invece di scavare noi tante trincee le facevamo scavare anche a loro.
Alla luce di quella che è stata la sua esperienza nei campi di prigionia russi, secondo lei quale è stata la motivazione che ha portato i Russi a considerarvi diversi dai Tedeschi?
Bisogna considerare quel che nell’opinione comune viene definito “Italiansky harashò”, “l’Italiano è buono”, “Italiani brava gente” (come poi fu intitolato un noto film del regista De Santis sulla campagna di Russia n.d.t.). La popolazione russa ha sempre avuto simpatia per i soldati italiani. I Russi, di base, sono buoni, purtroppo sono stati tartassati dalle angherie del regime comunista. Soprattutto i contadini, che sono stati sacrificati dalla rivoluzione che ha, di fatto, abolito i contadini e tutte le proprietà terriere. In un primo momento gli Ucraini speravano molto nella liberazione da questa oppressione, speravano di essere liberati dai Tedeschi che invece non capivano nulla di come ci si dovesse comportare con la popolazione. Cominciarono a deportare la gente e la conseguenza fu di alterare il rapporto con il popolo. Fu lì che cominciarono a insediarsi e organizzarsi i partigiani; da quel punto in poi il popolo cominciò a non collaborare. Non è che noi Italiani ci comportassimo bene per amicarci qualcuno, noi eravamo fatti cosi, non siamo fatti per fare la guerra. Quando arrivavamo in un posto non cacciavamo nessuno di casa, ma purtroppo non è così che si fa la guerra. Bisogna essere cattivi se si vuole un risultato. I Tedeschi invece la sanno fare così come la sapevano fare i Russi o i Giapponesi.
Ma non crede che possa trattarsi di presunzione voler pensare che i buoni siamo noi e che i cattivi sono loro, i Tedeschi?
No, no. Non voglio dire che i Tedeschi siano cattivi ma si comportavano da cattivi.
Forse è un fattore di disciplina?
Sì, è di disciplina. Anche durante l’avanzata, appena arrivavano i Tedeschi, la popolazione veniva evacuata, nelle case non doveva esserci più nessuno. I soldati tedeschi obbligavano la gente del posto a sgomberare tutte le case; dovevano essere a disposizione loro, per gli uffici, i magazzini, gli alloggiamenti dei soldati. La gente doveva arrangiarsi, l’importante era che andasse via.
Non veniva trasportata in altre zone o messa al sicuro.
No, niente. Veniva semplicemente cacciata. Partiva con un carrettino o con una carriola.
Lei ha assistito a queste scene?
Sì, le ho viste. Quando passavamo in villaggi occupati dai Tedeschi non trovavi nessun russo nelle case. Dove arrivavamo noi entravamo nelle isbe, ma lasciavamo chi le abitava anche se questo poteva comportare la presenza di spie. La gente sapeva tutto e quindi eravamo in balia dei partigiani.
Dunque secondo lei gli Italiani non sanno fare la guerra.
No, non sappiamo farla.
Non c’erano delle direttive precise nel comportamento da tenere con la popolazione?
Le regole non ce le hanno mai date. C’erano delle circolari che dicevano che non dovevamo familiarizzare con il popolo ma… figuriamoci. Noi la sera cantavamo e ballavamo insieme a loro, insieme alle ragazze. Naturalmente loro non avevano nulla da offrire, così noi portavamo quelle che erano le nostre scorte e, nei momenti di tranquillità, si passavano le serate insieme. Nella zona dove eravamo noi il popolo sapeva come ci comportavamo e quando arrivarono i Russi la gente raccontava loro delle differenze tra noi e i Tedeschi. Tant’è vero che i primi giorni dopo la cattura, i Tedeschi venivano fatti fuori subito. Tutto questo però succedeva nella zona che noi avevamo occupato. Dall’altra parte del Don invece non ci conosceva nessuno. Quando siamo stati trasportati al di là del fiume, infatti, c’era altra gente, altra tipologia di Russia. Non sapevano nulla di noi, non conoscevano le differenze delle divise tra Italiani e Tedeschi. Eravamo i “fascisti occupanti”.
Trovavate perciò una popolazione ostile.
Non sempre. Nel libro cito casi capitati durante le marce del davaj. Ma questo succedeva anche nelle città del bacino minerario del Donez, nelle città dove la gente era molto istruita, anche lì vigeva un clima ostile, era chiarissimo. E avevano ragione, noi eravamo la gente che era andata nella loro terra ad occupare. Non faceva differenza essere Italiani o Tedeschi, eravamo semplicemente degli occupanti. Mi successe una volta un fatto esemplare. Quando oltrepassammo il Donez per avanzare verso il Don, prima di Millerovo mi pare – le tappe sono state tante – arrivammo in un villaggio. A quel punto dissi ai miei uomini di trovare un posto per piantare le tende e di cercare un’isba per me, per passare la notte. Quando entrai in quella casa trovai due coniugi anziani. A sera, quando mi recai lì per dormire, mi si presentò una giovane donna, una bella ragazza. Appena mi vide mi spiegò che non sapeva parlare l’italiano ma mi disse, con una certa fermezza, che non gradiva che un ufficiale nemico, invasore, dormisse in casa sua.
E a quel punto?
Be’, mi dissi, dovevo dormire una sola notte. Non era il caso di insistere e magari non dormire per timore di sorprese. Me ne andai e lei non mi ringraziò nemmeno, lo fecero i genitori. Questo per dire come la popolazione cambiasse atteggiamento a seconda del soldato che aveva di fronte. Se fosse stato un ufficiale tedesco non avrebbe parlato in quel modo, un tedesco le avrebbe piantato un proiettile in fronte un minuto dopo. Nel bene o nel male il popolo russo riconosceva una certa differenza di comportamento tra i Tedeschi e gli Italiani e, in base a questo, si comportava di conseguenza.
Rimanendo sempre su questo aspetto. Lei, insieme alla sua truppa e agli altri ufficiali, eravate consapevoli di essere “gli invasori”. Eravate quindi coscienti di stare in un posto che poteva esservi ostile.
Sì, ne eravamo coscienti, lo sapeva anche la truppa.
Proprio per questo aspetto lei considerava giusto o giustificabile essere lì a fare la guerra? Trovava giusto aver invaso un territorio e un popolo che, in fondo, non ci aveva fatto nulla?
Bisogna mettere la questione su due piani. Il fatto che fossimo andati a combattere lì non lo capivamo perché non c’era odio verso il popolo russo. La propaganda ci diceva che andavamo a combattere il comunismo ma noi, il comunismo, non sapevamo nemmeno cosa fosse. Sotto il fascismo, io che ho fatto scienze economiche, quando si parlava delle dottrine politiche e si parlava di Marx, si sorvolava. Perciò non sapevamo nulla, eravamo solo al corrente di ciò che amplificava la propaganda. L’altra storia, che la Russia fosse “l’impero del male contro la religione”… anche quella non riuscivamo a capirla. In tutte le isbe dove entravamo c’erano delle immagini sacre verso le quali i Russi, gli Ucraini si facevano il segno della croce. Appena arrivavano i cappellani a celebrare messa si radunavano tutti intorno. I nostri sacerdoti distribuivano santini e la popolazione veniva persino a fare battezzare i figli. Perciò non capivamo tante cose ma eravamo convinti che, se ci avevano mandato lì, avremmo dovuto fare il nostro dovere. Non facevamo troppo i filosofi.
Sentivate il senso del dovere: così come sapevate di essere obbligati a fare il militare facevate anche la guerra. La guerra c’era e bisognava farla nel migliore dei modi.
Non era nemmeno concepibile andare contro, non esisteva proprio come possibilità. Non si poteva pensare che non si facesse il militare e, nel momento in cui si fosse presentata la guerra, ci si potesse tirare indietro. Teniamo conto che non ci si poteva nemmeno sfogare con nessuno, nemmeno per corrispondenza a causa della censura. Quando è saltato tutto, specie in prigionia, sono emerse tutte le critiche al regime. Facemmo grandi discussioni su questo.
La mancanza di organizzazione dell’esercito italiano era evidente o la si cominciò a percepire solo quando ci fu la disfatta?
No, lo si percepiva anche prima. Si vede quando le cose sono fatte bene e quando sono fatte male. D’altronde non era concepibile che il nostro battaglione di sciatori fosse usato da tappabuchi. Eravamo, per i più, quello che per gli americani erano i Marines. Eravamo “reparto d’assalto” solo perché, almeno, ci avevano dato un pugnale? Gli alpini del Cervino avevano un moschetto con una sottile baionetta incernierata. Se dovevano spaccare un pezzo di legno non avevano nulla con cui farlo. Il 91 era provvisto di una robustissima baionetta separata, per cui ci avevano dato un pugnale.
Però il Monte Cervino era il battaglione addestrato meglio.
Eravamo addestrati per la montagna, ma come preparazione bellica non direi. Non avevamo mai fatto una manovra di combattimento negli abitati abbiamo dovuto inventarci la lotta contro i carri armati. Non sapevamo come si facesse. Al corso allievi ufficiali, e anche dopo, tutta la tattica si risolveva in scatti della fanteria: pancia a terra eccetera, eccetera… Mi ricordo che ci facevano fare tutte queste esercitazioni. Quando l’intervistatore pacifista mi chiese cosa avevo provato quando avevo sentito le pallottole passarmi sulla testa, gli risposi che, al corso allievi ufficiali, le pallottole le avevo già sentite e non erano quindi una novità per me. Al nostro corso, per la prima volta, c’erano ufficiali che avevano fatto la Grecia e questi sostenevano che se un soldato voleva veramente imparare a stare a terra e strisciare aveva bisogno di fare quelle esercitazioni con pallottole vere. Dicevano che “i soldati devono sentire i fischi sulla testa” e allora sì che stanno incollati a terra. Così quando usavamo i mortai, vedere scoppiare davanti ai propri occhi e vedere l’esplosione di un mortaio, procurava un certo effetto. Poi, quando in guerra te li vedevi a 10 metri, l’effetto impressionante era ben diverso. Una volta, mentre si svolgeva il corso, mi arrischiai a chiedere: “Scusate, ma un allenamento per la ritirata non si fa mai?”. Non lo avessi mai detto! Mi risposero: “Un ufficiale italiano non si ritira mai, non deve passare nemmeno per la testa che ci si possa ritirare.”
In effetti nelle ritirate ci fu il caos assoluto proprio a causa di questa impreparazione.
Nelle file tedesche invece riuscivano a tenere ordine perché loro, al contrario di noi, erano stati addestrati anche a quello. Da noi non era concesso nemmeno ipotizzarlo.
Possiamo confermare dunque che l’impreparazione fu alla base della disfatta!
Si, impreparazione organizzativa, materiale e insufficienza di addestramento.
Io però ho criticato Gariboldi quando ha cercato di attaccare gli ufficiali di complemento accusandoli di non essere preparati. Noi eravamo l’ultima leva, rispetto a chi ci aveva preceduto, ed eravamo invece abbastanza preparati. Questo lo constatai in prigionia dove vidi ufficiali senza volontà, senza nerbo.
Come si impara ad essere un buon ufficiale, a guidare una truppa?
È una cosa che è difficile da insegnare e lo si è potuto imparare solo sul posto e a volte qualcuno non l’ha imparata neanche in quel modo. Si deve imparare a gestire gli uomini ma questo non te lo insegna nessuno.
Perché è impossibile insegnarlo o perché non sanno insegnarlo?
Insegnare come ci si deve comportare è molto complicato, ci vorrebbero degli psicologi. Però, se hai un buon capo, una buona guida, puoi anche riuscire a impararlo. Guardi come si comporta lui e impari la lezione.
L’esempio, il buon esempio, è basilare.
Sì, l’esempio è tutto. Non dico che ci voglia “il bastone e la carota” ma sono necessarie l’onestà e la giustizia. Se ci sono questi due fattori si è già delle buone guide.
Tratto da: www.centoventesimo.com/…/intervista_a_Carlo_Vicentini_campagna_di_russia.htm
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