da: “Vie della Tradizione”, II, 1972, n. 5, gennaio-marzo, 37-45 La figura di San Francesco d’Assisi e la natura dell’Ordine da lui fondato appaiono al comune pubblico “colto” rispettivamente come quello di un “quasi-eresiarca” anticipatore di una eventuale “Chiesa dei poveri tornata alle origini” e di un movimento ereticale nella sostanza non dissimile da quello dei Valdesi che solo faticosamente la Chiesa di Roma sarebbe riuscita più tardi a riassorbire. Il Francescanesimo è addirittura da alcuni assimilato all’attuale fenomeno “hippye” se non all’odierna contestazione. Ripetiamo, questa è l’idea dell’osservatore “colto”, abbeverato alla cultura profana; per quanto riguarda l’uomo della strada e il comune fedele San Francesco d’Assisi è soltanto una delle grandi figure della Chiesa trionfante cui si deve devozione e il cui esempio va imitato. La seconda opinione, per quanto più seria anche se più semplicistica della prima ha il torto però anche essa di porre troppo l’accento sul tema della “povertà” di Francesco, dimostrando di non comprenderne, indipendentemente dalla sua effettiva realtà storica, il probabile significato simbolico. Ma leggendo il libro intitolato “Fioretti, miracoli ed esempli divoti del glorioso poverello di Cristo, messere Santo Francesco”, e d’alquanti suoi santi compagni libro meglio conosciuto con il titolo abbreviato di “Fioretti di S. Francesco”, ci si accorge che la figura di San Francesco rientra senza ombra di dubbio almeno fra quelle dei grandi mistici della Cristianità, per quanto alcuni contatti con il mondo musulmano facciano pensare a qualcosa di più alto livello, vale a dire all’iniziazione (1). Intendiamoci, quanto da noi affermato non è per nulla sicuro e deriva solo da una attenta esegesi del libro, esegesi condotta secondo quel metodo definito da Evola “tradizionale” e valendoci di quel poco di sensibilità che ci riconosciamo in questo campo. Non abbiamo la pretesa, e ne avvertiamo il lettore per dovere di serietà oltre che di onestà, di aver ricevuto quanto da noi trasmesso da rappresentanti qualificati della Tradizione, come invece pare sia stato il caso del Guénon. La nostra resta allo stato un’ipotesi, una ipotesi però corroborata da numerosi elementi favorevoli. Occorre naturalmente leggere i “Fioretti di S. Francesco” liberi da intenti di critica letteraria o di speculazione filosofica, guardando invece al suo aspetto più importante, quello simbolico-esoterico, che ci meraviglia come sia stato fino a questo momento tanto trascurato, ad onta della ottusità della cultura moderna. Da chiarire che i “Fioretti” sono un’opera anonima, probabilmente scritta a secolo XIV inoltrato, in ogni caso non prima del 1322, data della morte di fra Giovanni della Vernia, cui nel libro si allude. L’opinione prevalente ritiene i Fioretti una traduzione di un precedente testo latino intitolato “Floretum”, contenente anche una storia di San Francesco e dei suoi primi compagni; d’altra parte l’annalista francescano Luca Wadding attribuisce la paternità del detto “Floretum” a tale “frater Hugolinus de Sancta Maria in Monte, Marchianus”. Tale frate Ugolino era anche autore di un’altra opera latina medioevale, gli “Actus Sancti Francisci et sociorum eius” che alcuni considerano una introduzione al “Floretum”. Altri ancora ritengono i “Fioretti” una raccolta di leggende e storie francescane di autori diversi e poi collegate fra loro. In ogni caso quello che a noi interessa e, più che l’autenticità delle varie storie, la loro veridicità, o per meglio dire la loro capacità di esprimere, al di là del significato letterario o anche allegorico, qualcosa di più profondo. D’altra parte l’epoca in cui nacquero i “Fioretti” piena di opere di questo genere e l’esempio più illustre ci è dato in Italia dalla “Commedia” dantesca, certamente poema esoterico prima che letterario, nonostante le farneticazioni negatorie di un Croce. E non bisogna dimenticare che quell’epoca corrisponde all’incirca all’apparire delle ultime opere in Europa, soprattutto in Germania e in Francia, facenti capo al mito del Graal (2). V’era insomma tutto un clima ideale che sembra avvalorare le nostre supposizioni. Ma veniamo all’esame del testo. Il primo capitolo, nel presentarci i compagni di San Francesco, ce li descrive tutti come dotati di poteri “supernormali”: “imperocché alcuno di loro fu ratto insino al terzo cielo, come San Pagolo, e questi fu frate Egidio; alcuno di loro, cioè frate Filippo Lungo, fu toccato le labbra dall’Agnolo col carbone del fuoco, come fu Isaia Profeta; alcuno di loro, ciò fu frate Silvestro, parlava con Dio, come fa l’uno amico coll’altro, a modo che fece Moisé; alcuno volava, per sottilitade d’intelletto, infino alla luce della Divina Sapienza, come l’aquila, cioè Giovanni Evangelista; e questo fu frate Bernardo umilissimo, il quale profondissimamente isponeva la Sacra Scrittura: alcuno di loro fu santificato da Dio, e canonizzato in cielo, vivendo ancora nel mondo; e questo fu frate Ruffino gentiluomo d’Ascesi”. Ora anzitutto ci appare il richiamo a tre figure esoteriche quali Mosè, San Paolo e soprattutto San Giovanni Evangelista, di più fra i quattro evangelisti se non il solo dotato sicuramente di un sapere ultraprofano e ultradevozionale. Si allude chiaramente a fenomeni di levitazione (frate Bernardo), di “ferite angelische” molto simili alle stimmate di un Padre Pio (frate Filippo Lungo), di contatto diretto con il Trascendente (frate Silvestro). Quanto a frate Ruffino non si capisce bene se la sua “beatificazione e canonizzazione” in vita sia posta all’ultimo volendone far risaltare la minore importanza “fideistica” rispetto a una superiore conquista iniziatica, o voglia far cenno al riconoscimento di una superiore dignità conseguita ancora nella fase terrena dell’esistenza, indipendentemente da un riconoscimento postumo della stessa Chiesa. Nel capitolo secondo si dice che Messer Silvestro ebbe fra l’altro “una cotale [vi]sione: che dalla bocca di Santo Francesco usciva una Croce d’oro, la cui sommità toccava il cielo, e le braccia si distendevano dall’Oriente infino all’Occidente”: indubbiamente il passo è alquanto oscuro e potrebbe racchiudere diversi significati non escludentisi l’uno con l’altro. Senza voler ulteriormente approfondire il problema anche per mancanza di spazio, oltre che per le difficoltà intrinseche, riteniamo che sia da ravvisarsi nella figurazione sopra riportata un collegamento con uno o più dei vari aspetti propri del “simbolismo della Croce” (3). Il fatto che la Croce “tocchi il cielo” potrebbe far pensare al rapporto fra i due principi metafisici dello yang e del yin, principi rispettivamente maschile e femminile simboleggianti il Cielo e la Terra secondo la Tradizione taoista predominante in Cina e in qualche altra località dell’Estremo Oriente. D’altra parte nella Croce “il senso orizzontale rappresenta quindi l’ampiezza, cioè l’estensione integrale della individualità assunta come base della realizzazione, estensione che consiste nello sviluppo indefinito di un insieme di possibilità soggette a condizioni particolari di manifestazione; nel caso dell’essere umano, sia ben chiaro, questa estensione non si limita affatto alla parte corporea dell’individualità, ma dell’individualità comprende tutte le modalità, lo stato corporeo non essendo che una di esse. Il senso verticale rappresenta la gerarchia, anch’essa a maggior ragione indefinita, degli stati multipli” (4). Nel capitolo quarto sempre dei “Fioretti” si accenna a un viaggio di San Francesco “a Santo Jacopo di Galizia”, vale a dire a Santiago de Compostela nella Galizia spagnola. Nel nostro precedente studio sugli Ordini cavallereschi spagnoli abbiamo accennato, seppure brevemente, al valore simbolico di Santiago nel corso di tutta la “Riconquista” spagnola. Santiago è “l’alter-ego” di Maometto, il simbolo della guerra santa condotta dai “Cristianos” di Castiglia, Aragona, Asturie, Leon Galizia contro gli Ispano-Islamici di “Al Andalus”, ovvero della Spagna arabizza. Ma, come abbiamo già detto, la stessa idea di guerra santa era recepita dal mondo islamico, né si possono escludere, anzi in alcuni casi sono addirittura provati, i rapporti fra Isla m e Cristianità. Il pellegrinaggio a Santiago nel Medioevo era molto comune in Occidente, come lo è oggi quello a Lourdes; non è da escludere quindi che San Francesco si sia recato in Galizia da semplice pellegrino. Ma appare strano che molti suoi compagni, secondo quanto ci è rivelato dai “Fioretti”, lo seguirono nel viaggio in Galizia. Anche qui tutto potrebbe giustificarsi con l’esigenza di fondare le prime comunità francescane in terra iberica; ma non sono da escludersi, e noi propendiamo per questa seconda alternativa, prese di contatto con centri spirituali della Cattolicità “compostelana”, oltre che con eventuali “ribellioni” musulmane. Si ricordi inoltre che secondo una “leggenda” non corroborata dalla storia positiva, anche Dante avrebbe compiuto il lungo viaggio verso Santiago, viaggio collegato alla celeste “via lattea”, detta appunto ancor oggi in Spagna “il cammino di Santiago”. Nel capitolo tredicesimo viene detto che San Francesco, messosi a pregare dietro l’altare di una chiesa, “in quella orazione ricevette della divina visitazione a eccessivo fervore, il quale infiammò sì fortemente la anima sua ad amore della santa povertade, che tra per lo colore della faccia, e lo nuovo sbadigliare della bocca, pareva che gittasse fiamme d’amore”. Qui vi è un chiaro riferimento, come anche per la “croce d’oro”, al simbolismo tradizionale del “fuoco” e della “luce”, presente in tutte le Tradizioni, da quella indù a quella buddistica (si pensi alle luci mistiche dello yoga come a molti altri tipi di epifanie luminose), dalla cinese all’iranica, (l’irradiazione di luce da parte di Zarathustra), dalla giudaica (per quanto qui la luce si considera creazione divina e non si identifichi con Javhé) a quella cristiana (il caso della trasfigurazione di Gesù dinanzi ai tre apostoli e accanto a Elia e a Mosè) (5). Anche qui le manifestazioni sensibili realmente verificatesi non escludono il simbolismo e viceversa. Piuttosto v’è da dire che nel mondo cristiano, soprattutto greco-ortodosso e russo-ortodosso “fenomeni luminosi” si sono realizzati fino a tempi recenti. Nel mondo cattolico si avrebbe notizia solo di Padre Pio da Pietralcina, alcune delle cui stimmate avrebbero emanato, a detta degli stessi suoi medici, radiazioni luminose. Ma quello che rimane il più grande mistero della vita di San Francesco è il viaggio in Egitto ove si sarebbe recato nel 1219 al seguito della quinta Crociata. Secondo i “Fioretti” (capitolo ventiquattresimo) “Santo Francesco, istigato dal zelo della fede di Cristo e dal desiderio del martirio, andò una volta oltremare con dodici suoi compagni santissimi, per andarsene diritto al Soldano di Babilonia”. Tutti sono concordi nell’identificare il “Soldano di Babilonia” con il Sultano d’Egitto allora regnante Malek al Kamel. Da notare inoltre il curioso simbolismo del numero dodici, che sempre si ripete come per le dodici tribù di Israele, per i dodici Apostoli di Gesù e in molti altri casi. Nel seguito il racconto diventa ancora più oscuro ed emblematico: si parla di San Francesco arrestato dalle guardie del Sultano che non solo lo salvò, ma addirittura gli avrebbe detto: “Frate Francesco, io volentieri mi convertirei alla fede di Cristo, ma io temo di farlo ora; imperocchè, se costoro il sentissono, egli ucciderebbero me e te con tutti i tuoi compagni”. In seguito, dopo la morte di San Francesco il Sultano avrebbe ricevuto il Battesimo da due frati appositamente inviatigli da Lui. Ora, se si volesse prendere la narrazione alla lettera, dovremmo dire di trovarci di fronte a un mero parto di fantasia. Anzitutto nello Egitto islamizzato la Tradizione cristiana, come del resto ancor oggi, non si spense mai del tutto, grazie alla presenza della Chiesa copta; ma ciò non toglie che eventuali missionari cristiani provenienti da Occidente, in un periodo in cui le Crociate rappresentavano un vero e proprio conflitto in termini di civiltà, non sarebbero stati certo accolti a braccia aperte, né tanto meno avrebbero potuto operare liberamente le conversioni. Tutto il testo rimanda all’idea che l’incontro fra Francesco e il Sultano nasconda un contatto a livello superiore a quello meramente religioso e devozionale. In altri termini l’unità fra i due personaggi era trovata in una dimensione tradizionale metafisica che trascendeva le diversità ed anche i contrasti fra le due differenti forme religiose. Nel capitolo ventiseiesimo si parla di varie prove imposte da un Angelo a un frate, fra le quali l’essere gettato “guisto per quella ripa”, di “passare a piedi ignudi” per “una gran pianura piena di pietre aguzzate e taglienti, e di spine di triboli”, l’entrare in “una fornace ardente”: è evidente qui il simbolismo relativo alle “prove iniziatiche”. Nel capitolo ventottesimo si accenna a fenomeni di levitazione capitati a Frate Bernardo, nel capitolo quarantesimo si ricorda la stessa manifestazione per Frate Bentivoglio da Santo Severino e Frate Pietro da Monticello, nel quarantottesimo si parla di epifanie luminose capitate a Frate Giovanni da Parma e si riprende l’antico simbolismo dell’albero. Del resto occorre ricordare che San Francesco, come Teresa Neuman e Padre Pio da Pietralcina, fu uno “stigmatizzato” e come tale rientra fra quegli esseri privilegiati, “feriti direttamente da un Serafino di Dio”, sui quali qualche secolo dopo svolgerà una sua teoria classicamente tradizionale un altro grande esponente della Cristianità occidentale e ispanica, quel San Juan de la Cruz (San Giovanni della Croce) in cui ormai anche i profani scorgono le influenze del Sufismo islamico. D’altra parte leggendo i “Fioretti” ci si accorge dell’assenza totale del preteso carattere “sociale” e rivoluzionario del Francescanesimo: il tema della povertà viene inteso piuttosto, come nella migliore ascesi buddhistica, come distacco dal mondo in quanto superamento, trascendimento del mondo stesso e della mera condizione umana. Come pure la povertà potrebbe simboleggiare quella “nudità rituale” necessaria per recepire un insegnamento superiore e per operare una reale trasformazione personale. Né ci sembra di scorgere una pretesa avversione per il mondo, per il potere politico o per la guerra in se stessa, come tentano di insinuare alcune moderne interpretazioni del fenomeno francescano. V’è un disinteresse più che un’ostilità verso determinate forme tradizionali riservate ad individui dal temperamento diverso dai fraticelli dell’Ordine dei Minori. Ci rendiamo conto con questo di non aver affatto esaurito l’ampia e interessantissima materia, ma di avere offerto solo uno spunto a chi ne avesse l’intenzione. Ma in tal caso occorrebbe un esame approfondito non dei soli “Fioretti”, ma di tutta la copiosissima letteratura, francescana fino ai nostri giorni. Gabriele Fergola Note (1) Per la differenza fra misticismo e iniziazione cfr. René Guenon, Considerazioni sulla via iniziatica, ed. Bocca, Milano 1949, pag. 25-31. (2) J. EVOLA, Il mistero del Graal e l’idea imperiale ghibellina, ed. Ceschina, Milano 1962. (3) RENÉ GUÉNON, II simbolismo della Croce, ed. Studi Tradizionali, Torino 1964, soprattutto pag. 22-27 e 145- 165. (4) Idem, pag. 23. (5) MIRCEA ELIADE, Mefistofele e l’Androgine, ed. Mediterranee, Roma, 1971, pag. 15.70.]]>