L’ ultima cannonata la sparò l’ ultimo carro ancora in grado di farlo, il 6 agosto del 1943. Da una postazione non precisata sui Nebrodi, da cui insieme con i fanti della divisione Aosta e i tedeschi della 15ª divisione Panzergrenadier “Sizilien” cercavano di rallentare l’ avanzata verso Messina delle truppe del generale Patton.
L’ultimo colpo prima di essere annientato dallo sbarramento di controbatteria dei pezzi e dei carri armati americani. Avevano cominciato la battaglia in ventiquattro. Al terzo giorno di battaglia si erano ridotti in quattordici; il 19 luglio, ne rimanevano dieci; l’ 11 agosto erano tre ma non più in grado di combattere. Gli ultimi due, dopo aver esaurito tutti i colpi, riuscirono ad arrivare a Messina al comando di un tenente subentrato al capitano morto in combattimento; uno dei mezzi si muoveva a stento e l’ altro dovette essere trainato; erano poco più che rottami e fu deciso che non valessero la fatica di traghettarli in Calabria. Il comandante della batteria ucciso si chiamava Verona e per lui i tedeschi proposero la croce di ferro di prima classe alla memoria.
Imprevedibile riconoscimento da parte di un alleato che già considerava subalterne, e inaffidabili, tutte le truppe italiane “badogliane” ancora in grado di combattere. Era tutto ciò che rimaneva del 10° Raggruppamento semoventi, che era stato uno l’ unico reparto italiano dotato di mezzi moderni ed efficaci, tecnicamente alla pari con gli analoghi tedeschi e angloamericani. Il reparto, all’ inizio costituito per essere impiegato in funzione controcarro in Russia, era stato poi inviato in Sicilia, dov’ era arrivato il 17 dicembre del 1942. Articolato su tre Gruppi, ciascuno dei quali con due batterie con quattro cannoni semoventi ciascuna, il 10° Raggruppamento era comandato dal colonnello Bedogni ed era stato assegnato al XII Corpo d’ armata del generale Arisio dislocato nella Sicilia occidentale, fra Calatafimi, Salemi e Caltanissetta.
I cannoni semoventi di cui era dotato, montati sullo scafo del carro armato M14, erano i modernissimi 90/53 costruiti dall’ Ansaldo e nelle intenzioni dello Stato maggiore il semovente avrebbe dovuto essere impiegato controi nuovissimi e terrificanti tank sovietici T34, contro i quali i pezzi controcarro dell’ Armir sembrava sparassero proiettili di burro tanto erano poco efficaci. Ma ormai, che andava a fare in Russia? La ritirata dal Don, a dicembre era già una tragica rotta. Il 10° era appena arrivato in Sicilia che, nel gennaio 1943, fu passato in rassegna dal re Vittorio Emanuele III, in visita ispettiva.
In una delle foto scattate per l’ occasione, il re passa davanti al reparto schierato a bordo di un’ auto scoperta e con folto seguito di generali: sul parafango destro dell’ auto regale è visibile una vistosa ammaccatura, assente in un’ altra foto di pochi giorni precedente.
Tutti i soldati schierati in armi davanti ai semoventi, hanno lo sguardo fisso verso il sovrano, tranne uno (il terzo da sinistra) che guarda sornione verso quel parafango ammaccato.
Possibile che nemmeno per il re si fosse trovata, in tutto l’ autoparco della sesta Armata, un’auto in perfetto ordine? E venne l’ alba del 10 luglio, con il mare davanti a Gela e Licata pieno di navi americane che rovesciavano tonnellate di proiettili sulle posizioni tenute dalla 207a divisione costiera e le sue poche artiglierie, che appena sparavano una salva erano individuate e messe fuori combattimento dagli incrociatori, che si erano avvicinati alla costa fino al limite del galleggiamento.
I reggimenti di Patton presero Licata e avanzarono verso Campobello. Gli otto semoventi del CLXII gruppo del 10° sono di rinforzo dal generale Ottorino Schreiber (italiano nonostante quel nome tedesco), veterano del fronte russo, e riescono a costituire una linea di difesa, in appoggio agli altri reparti che il giorno dopo tentano un contrattacco. L’ avanzata americana è, per il momento, contenuta: il gruppo ha perduto i suoi primi tre carri ma ha messo fuori combattimento non poche autoblindo e carri Sherman.
I proiettili a carica cava dei cannoni da 90/53 perforano agevolmente i sessantacinque millimetri della corazzatura frontale dei carri armati americani, e anche quella da cento millimetri del più potente MkIII “Churchill” britannico.
Comincia così la guerra del 10° Raggruppamento Semoventi. Ogni giorno, un carro in meno, mentre il generale Schreiber sposta combattendo la linea di difesa sempre più verso l’ interno.
Accaniti combattimenti per Palma Montechiaro. Davanti a Naro, i semoventi riescono a impedire che i carri americani entrino in paese. Il 17 i reparti italiani ripiegano verso Leonforte.
Il 18 gli americani superano Santa Caterina Villaermosa. «Alle ore 7 – scrive al Comando d’ Armata il generale Schreiber nella sua relazione sui combattimenti dall’ 11 al 21 luglio – l’ artiglieria nemica martella zone schieramento 90/53: il tiro si mantiene per tutto il giorno, particolarmente sensibili le perdite fra il personale dei pezzi 90/53, che però riescono a far indietreggiare su Santa Caterina autoblindo e carri arrivati a 1 km dalla Portella.
Il 19, quattro pezzi colpiti sono resi inutilizzabili». Il 10° è ridotto a soli quattro semoventi e il 21 luglio è sciolto come reparto organico. L’ unica batteria superstite viene aggregata alla 15a “Sizilien” e continua a combattere sulle montagne dei Nebrodi e delle Caronie, fino a quell’ ultimo colpo, il 6 agosto.
Alla fine, il bilancio del Raggruppamento fu: tre su sei comandanti di batteria uccisi, altri quattro ufficiali morti, due su tre comandanti di gruppo feriti, tredici ufficiali feriti, cinquanta soldati morti e centoventicinque feriti, più di venti decorati al valore fra morti e vivi; lo stendardo ebbe la medaglia d’ argento e il “privilegio” di essere citato nel Bollettino di guerra del 24 luglio, il giorno prima della destituzione di Mussolini. «Avrebbe dovuto essere d’oro» commentò il generale Emilio Faldella, capo di Stato maggiore della 6a Armata, nel suo “Lo sbarco e la difesa della Sicilia”.
Il generale Faldella aveva deciso di scrivere la ricostruzione dettagliata delle operazioni in Sicilia dopo aver sentito la domanda di un’ alta personalità militare che, in viaggio nell’ isola nei primi anni Cinquanta del secolo scorso, si era meravigliata di trovarci cimiteri di guerra italiani: «Sono morti soldati italiani in Sicilia?»».
Faldella era trasecolato e aveva deciso che era tempo di scrivere la storia di quegli sconosciuti e diffamati trentotto giorni di battaglie, che dall’ una della notte del 10 luglio fino al 17 agosto avevano ucciso 4.678 soldati italiani. Tanti erano i caduti certificati, sepolti nei cimiteri militari ma era una contabilità incompleta: mancavano 36.072 dispersi. Erano stati tempi di coraggio ma anche di paura, di sbandamenti, qualche volta di viltà e diserzione, soprattutto di confusione: ma tutti quei soldati perduti non potevano essere liquidati come «forza assente» rintracciabile, prima o poi. Migliaia di loro erano morti: senza nome e senza corpo, sepolti a pezzi nelle fosse comuni, sciolti nell’aria dalle granate, impastati alla terra dall’ arroventata estate siciliana.
tratto da: La ritirata dei fascisti le ultime cannonate della guerra in Sicilia di Mario Genco, la Repubblica.it del 2010/08 /06